Siamo troppo affezionati al nostro dolore
Sono troppo affezionato al mio dolore per infilarmi i calzini prima di indossare le mie Clark's blu, sono troppo affezionato al mio dolore per infilarmi un paio di mutande sotto i jeans, sono troppo affezionato al mio dolore per indossare almeno un maglione sotto il piumino giallo oro, sono troppo affezionato al mio dolore per non mettermi che in tasca il mazzo di chiavi di casa mia e il mio cellulare, solo per ascoltare le colonne sonore di Ennio Morricone, quelle più tristi, ovviamente.
Esco una sera di sabato, all'improvviso, come fossi spinto da un impulso irrefrenabile, uno zombi obbediente al richiamo da parte del bokor, passo spedito, non ho portato con me documenti, non ho un soldo in tasca e le mie gambe si muovono da sole e si dirigono verso il mausoleo. Rispetto a malapena i semafori del traffico serale, avanzo come se mi trovassi sul carrello di una dolly: e da lontano già, sul ponte della ferrovia, mi appare uno scorcio del mausoleo.
Sono troppo affezionato al mio dolore per non prendere la scorciatoia che porta alle vecchie case popolari senza tagliare per il giardinetto, luce fioca, rifugio dei tossici; sono troppo affezionato al mio dolore a tal punto che saprei difenderlo, anche se mi aggredissero fisicamente e poi infierissero su di me perchè non troverebbero nemmeno un centesimo in tasca; sono troppo affezionato al mio dolore per non farmi pestare a sangue.
Nulla di tutto questo succede, passo attraverso alcuni tizi, ma il mio sguardo frigido è eloquente e godo del temporaneo salvacondotto della mia andatura cibernetica, che nulla ha di umano. Arrivo al muretto del mausoleo, guardo le finestre spente del vecchio appartamento, come annusando l'aria: quelle finestre da cui non proviene luce mi imbambolano e ricordo come da lì, da lassù, si veda l'acciottolato illuminato dal lampione giallo: è come se fossi ancora in piedi, di sera, dietro le tende di quelle finestre, e non sotto sul marciapiede, come sono nel qui e ora.
E mi osservo da sotto sbirciarmi da dietro le finestre , vedo me stesso che scosta appena la tenda della stanza buia e retrocede, perchè sa che io da quaggiù l'ho scorto, l'altro me stesso, quello che era vissuto lì, mi sta guardando da anni addietro. Io e me stesso ci guardiamo per un pò, uno dietro quella finestra spenta e l'altro sotto sul marciapiede, col naso all'insù. Cosa vorremmo dirci? Io ora gli direi" Vai via, finchè sei in tempo!" e lui, di rimando, mi dice "Resta, finchè sei in tempo".
Sono troppo affezionato al mio dolore per non guardare la panchina del cortiletto su cui mi fumavo l'ultima sigaretta prima di salire in casa, sono troppo affezionato al mio dolore per non approfittare di una macchina che esce e intrufolarmi, attraverso il cancello apertosi, in quel cortiletto condominiale, senza pensare a come uscirne dopo che la porta automatica si sia richiusa alle mie spalle, senza sperare che un'altra auto esca o rientri a quell'ora di notte. Ed eccomi dall'altra parte dell'appartamento, a guardare ancora all'insù.
Sono troppo affezionato al mio dolore per non distinguere chiaramente la finestra del bagno, la porta finestra della cucina e la finestra della camera da letto, senza aver la capacità di visualizzarmi camminare come un ladro in quella casa buia, come se stessi compiendo un viaggio astrale o uno sdoppiamento, mentre, so benissimo, che si tratta solo di una buona capacità di visualizzazione unità a una discretamente sviluppata memoria visiva. Sono troppo affezionato al mio dolore per non notare che un' orrenda tenda da sole a strisce bianche e blu è stata lasciata sul balcone dall'estate scorsa e penzolacchia a lato, raggomitolata con uno spago sul lato destro della porta della cucina; per non notare delle maglie a maniche lunghe stese, dopo esser state direttamente tirate fuori dalla lavatrice; per non notare il disordine e la trascuratezza che trasudano da quel balcone del terzo piano. Sono troppo affezionato al mio dolore per prendere atto che questo non è più affar mio.
Il cancello si apre per far entrare un'automobile che torna a casa. Decido che il compianto sul mausoleo non può durare ancora a lungo con quel freddo: ritorno in strada, non prima di aver grattato via dal citofono il Dymolabel a sfondo verde col solitario cognome.
Sono così affezionato al mio dolore che immagino di esser appena da poco uscito di casa perchè ho dimenticato qualcosa sotto, in macchina, e di potervi fare ritorno tra un quarto d'ora con una cartellina dei consuntivi sotto il braccio, e avere ancora le chiavi di quella casa: riesco a illudermi fino alla salita di pietra del cavalcaferrovia. Sono troppo affezionato al mio dolore per non arrivare a metà del ponte e volgere lo sguardo indietro, dall'unica prospettiva, a me ben nota, che permette, attraverso il castra delle case popolari, uno squarcio sulla casa dai mattoni rossi. Sono troppo affezionato al mio dolore per non ascoltare proprio "Death theme", quella che in "The Untouchables" di Brian de Palma accompagna la morte di Jimmy Malone ( Sean Connery) quando viene ucciso da Frank Nitti ( Jimmy Drago). Sono troppo affezionato al mio dolore per non trovare così struggente e poetico che, proprio in quel momento un treno, passi sotto il ponte. Sono troppo affezionato al mio dolore per non tornare verso casa, la mia questa volta, come un reduce di guerra, chiedendomi cosa troverò al mio ritorno.
Metto la chiave nella toppa: tutto è fermo nell'appartamento come l'avevo lasciato due ore prima, luce accesa in salotto, radio accesa. Perchè non c'è nulla che ci tenga più vivi del dolore.
E io sono troppo affezionato al mio dolore per permettergli di andare via, é per quello che son dovuto andar a inzuppare il mio cuore in quella malinconica promenade serale.
Sono troppo affezionato al mio dolore, ho un gran legame con esso, conosce tutto di me e non voglio lasciarlo andare via, perchè non è un quasi sconosciuto come sono invece la felicità, la gioia, la tranquillità o la serenità: non le conosco, o, perlomeno, non le conosco così bene e sono creature piuttosto volubili, non sai mai cosa fare per trattenerle, sbagli sempre qualcosa. Il dolore, come la solitudine, lo conosco bene e paradossalmente lo so trattare, lo so nascondere, lo far tacere davanti agli altri, so dove riporlo quando mi allontanerebbe le amicizie, riesco a tenerlo a bada quando mi urla di voltare le spalle ai superficiali: mi tiene, per dirla tutta, una gran compagnia e mi fa notare cose che hanno una poesia che proprio il dolore mi permette di vedere e di comprendere.
Sono troppo affezionato al mio dolore, perchè la notte, se, ad un certo punto, gli dico che ho proprio bisogno di dormire e di riposare, ecco che Lui si dirige sulla soglia della camera da letto, si accuccia lì, buono buono e mi dice: "Riposati ora. Io resto qui ad aspettarti. Se mi vorrai, domani ci sarò ancora, vicino a te, con te, ad ogni passo della tua giornata. Ma solo se tu lo vorrai. Buonanotte"
“How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand... there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold.”
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