Paperino Surfista

giovedì 12 maggio 2011

Elvis provvisorio








Elvis provvisorio





Nel 1964, l’anno della British invasion, i Beatles giunsero negli USA insieme con le minigonne di Mary Quant e i tagli di capelli di Vidal Sassoon. I Beatles chiesero udienza a Colui che giudicavano un patriarca, un iniziato che pertanto ebbe culto. Grana della voce densa che suona vicina e pur spettrale, di tono bruno mirabilmente persuasivo, Elvis non aveva inventato il rock’n’roll e non era il più bravo. Tuttavia, non di Howlin’ Wolf, non di Chuck Berry agognavano la presenza corporea i quattro giovani che si sapevano anch’essi predestinati, ma di Elvis soltanto perché aveva il carisma dell’idolo, era stato il prescelto, dall’industria che lo aveva divulgato ma altrettanto dal popolo che lo aveva prediletto. Elvis doveva sapere.
Elvis acconsentì, probabilmente godette una gratificazione narcisistica sebbene fosse divenuto maniaco-depressivo, fenomeno certo patologico ma non riducibile a mero interesse clinico. Si trovava infatti implicato in un dilemma che non poteva dirimere: l’idolatria di cui era fatto oggetto non poteva non essere morbosa, financo blasfema se lui, l’idolo, non sapeva perché quell’immane entusiasmo, donde provenisse e a quale fine fosse diretto insieme alla propria esistenza. Già dipendente dall’anfetamina e dagli uppers, perché da un po’ di tempo anche nelle accensioni momentanee di glamour dentro una scenografia, dove dapprima sempre la sua esistenza di idolo era apparsa giustificata, s’era insinuata la paurosa incertezza sulla natura della realtà che lo straniava da sé quando sulla scena non c’era lui. George Harrison riferì che trovarono Elvis in un salone della villa di Graceland, abbandonato su un divano, in accappatoio, con in braccio un basso collegato all’amplificatore mentre guardava la televisione, le palpebre pesanti, forse per l’insonnia, gli incubi e il sonnambulismo di cui soffriva a causa della dipendenza dalle anfetamine, o a causa di dubbi rivelatori di circostanze insostenibili, non disse quasi nulla; sul tavolino presso il divano una Coca-Cola maxi aperta, una bottiglia di bourbon, riviste di culturismo, una pistola con la quale, seppero poi, capitava sparasse all’apparecchio televisivo.
Elvis, scrive Scott Walker, nei momenti di solitudine e disperazione si sarebbe rivolto a suo fratello gemello nato morto Jesse Garon Presley:

Nose holes
caked
in black
cocaine

Jesse
are you
listening?

It casts
its ruins
in shadows

under
Memphis
Moonlight

Jesse
are you
listening?

Six feet
of
foetus

flung at
sparrows
in the
sky

Put yourself
in my
shoes

courtesy of Fabrizio Alloero 

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