ALTRIMENTI PENITENZA
MELTING PAN
MELTING PAN
teca rammemorante
recollection display case
La prima intromissione nel mio mondo di tradizioni culinarie piemontesi, il primo esotismo culinario, sono stati i datteri a Natale. Arrivavano sulla tavola di famiglia confezionati in vassoietti di plastica oblunghi e sempre, appoggiata sopra quei dolcissimi frutti, c'era un infilza datteri a forma di donnina.
Negli anni, con i loro cibi, sono arrivate altre popolazioni.
Ho imparato a gustare la cucina cinese, quella marocchina, quella indiana, quella messicana, ecc
Lo sfondo della teca è una piccola guida storica all'uso dei bastoncini cinesi: su di essa, quasi come un nuovo esotismo, ho messo la ricetta della "Bagna Cauda", il più povero e tradizionale dei piatti piemontesi.
La ballerina dei datteri, foto di Ilovetheinstant, www.panoramio.com/ |
La Bagna Caoda
(ricetta cerettese)
1) le acciughe devono essere belle acciughe rosse di Spagna, stagionate almeno un anno, fresche e fragranti cioè appena tolte dalla salatura, pulite, lavate in acqua , ben asciugate e diliscate, in ragione di almeno 2 o 3 acciughe a testa. Se si è fatto un buon lavoro le mani "tirano" per essersi intrise di sale( chi si mette i guanti è un sacrilego!), i polpastrelli sono "cotti" e increspati come quando si è stati troppo nell'acqua di mare e fanno anche un pò male perchè togliendo le lichette a mani nude qualcuna ci ha procurato dei piccoli forellini, impercettibili, ma che col sale fanno male.
1) le acciughe devono essere belle acciughe rosse di Spagna, stagionate almeno un anno, fresche e fragranti cioè appena tolte dalla salatura, pulite, lavate in acqua , ben asciugate e diliscate, in ragione di almeno 2 o 3 acciughe a testa. Se si è fatto un buon lavoro le mani "tirano" per essersi intrise di sale( chi si mette i guanti è un sacrilego!), i polpastrelli sono "cotti" e increspati come quando si è stati troppo nell'acqua di mare e fanno anche un pò male perchè togliendo le lichette a mani nude qualcuna ci ha procurato dei piccoli forellini, impercettibili, ma che col sale fanno male.
Se iniziate ad infastidirvi adesso siete messi male!
2) l'AGLIO non può essere giammai eliminato, poiché con esso scomparirebbe la bagna caòda! i veri pirmontesi"integralisti" ne prescrivono una "testa" per persona, come dire 10- 15 spicchi, non bolliti nè nell'acqua nè nel latte, soltanto liberati dal germoglio, tagliati a fettine sottili, lasciati, se volete, qualche ora in una zuppiera di acqua fredda, meglio ancora in acqua corrente. Se proprio volete fare come mia nonna, e tantissime altre nonne piemontesi, l' "anima" all'AGLIO non la togliete per nulla. Vi pare toglier l'anima a qualcosa o qualcuno come lo si riduce?
3) l'olio deve essere di oliva e buono, io preferisco quello extravergine, ma anche quello normale va bene, al bando però tutti gli oli di semi, e ne occorre non meno di mezzo bicchiere (da vino) per persona;
4) le verdure devono essere tutte quelle dell'habitat degli orti piemontesi, nessuna esclusa, ben pulite e tagliate grossolanamente: cardi gobbi di Nizza, in difetto cardi spadoni di Chieri, peperoni crudi, peperoni arrostiti e spellati, peperoni conservati sotto aceto e raspe, topinambur, cavoli verdi, bianchi e rossi, cuori bianchi di scarola e di indivia, porri freschi, cipollotti lunghi (questi si sogliono incidere a croce alla loro base e presentare a tavola a mazzetti di 3 o 4 immersi in un bicchiere di Barbera dal quale emergono per 4 dita, sono buoni anche solo mangiati gocciolanti di vino con un pizzico di sale), rape bianche, barbabietole rosse al forno, cavolfiori lessi, cuori di cavoli lessi, cipolle al forno, infine piatti di patate bianche bollite nella loro buccia, mele, fette di zucca arrostite o fritte, cestini di uova fresche da strapazzare nell'ultimo cucchiaio di bagna caòda che rimane nel tegamino di coccio.
2) l'AGLIO non può essere giammai eliminato, poiché con esso scomparirebbe la bagna caòda! i veri pirmontesi"integralisti" ne prescrivono una "testa" per persona, come dire 10- 15 spicchi, non bolliti nè nell'acqua nè nel latte, soltanto liberati dal germoglio, tagliati a fettine sottili, lasciati, se volete, qualche ora in una zuppiera di acqua fredda, meglio ancora in acqua corrente. Se proprio volete fare come mia nonna, e tantissime altre nonne piemontesi, l' "anima" all'AGLIO non la togliete per nulla. Vi pare toglier l'anima a qualcosa o qualcuno come lo si riduce?
3) l'olio deve essere di oliva e buono, io preferisco quello extravergine, ma anche quello normale va bene, al bando però tutti gli oli di semi, e ne occorre non meno di mezzo bicchiere (da vino) per persona;
4) le verdure devono essere tutte quelle dell'habitat degli orti piemontesi, nessuna esclusa, ben pulite e tagliate grossolanamente: cardi gobbi di Nizza, in difetto cardi spadoni di Chieri, peperoni crudi, peperoni arrostiti e spellati, peperoni conservati sotto aceto e raspe, topinambur, cavoli verdi, bianchi e rossi, cuori bianchi di scarola e di indivia, porri freschi, cipollotti lunghi (questi si sogliono incidere a croce alla loro base e presentare a tavola a mazzetti di 3 o 4 immersi in un bicchiere di Barbera dal quale emergono per 4 dita, sono buoni anche solo mangiati gocciolanti di vino con un pizzico di sale), rape bianche, barbabietole rosse al forno, cavolfiori lessi, cuori di cavoli lessi, cipolle al forno, infine piatti di patate bianche bollite nella loro buccia, mele, fette di zucca arrostite o fritte, cestini di uova fresche da strapazzare nell'ultimo cucchiaio di bagna caòda che rimane nel tegamino di coccio.
Una vairante di casa Borla Brunero includeva delle belle fettazze di pane abbrustolite sul poutagé.
5) la cottura, e questo è il punto decisivo per una bagna caòda buona, sana e digeribile, deve essere breve e tenuta sempre a calore basso: nel tegame grande di terraglia mettete tutto il vostro aglio affettato ed asciugato, con un mestolino soltanto di olio e un bel pezzo di burro, cuocetelo piano piano per almeno mezz'ora, sempre rimescolando l'aglio col cucchiaio di legno, badando bene che non scurisca; devono le fettine d'aglio ammorbidirsi e sciogliersi formando una crema omogenea bianca e soffice; a questo punto aggiungete tutto l'olio e tutte le acciughe e fate cuocere l'intingolo a basso calore solo quel tanto che le acciughe liquefino perfettamente, compenetrandosi con l'aglio per dar luogo ad una odorosa crema marrone chiaro: la bagna caoda è fatta, l'olio non deve avere mai fritto né scoppiettato. Durante il servizio a tavola, si aggiunge olio se occorre, allungando via via l'intingolo di aglio ed acciuga.
5) la cottura, e questo è il punto decisivo per una bagna caòda buona, sana e digeribile, deve essere breve e tenuta sempre a calore basso: nel tegame grande di terraglia mettete tutto il vostro aglio affettato ed asciugato, con un mestolino soltanto di olio e un bel pezzo di burro, cuocetelo piano piano per almeno mezz'ora, sempre rimescolando l'aglio col cucchiaio di legno, badando bene che non scurisca; devono le fettine d'aglio ammorbidirsi e sciogliersi formando una crema omogenea bianca e soffice; a questo punto aggiungete tutto l'olio e tutte le acciughe e fate cuocere l'intingolo a basso calore solo quel tanto che le acciughe liquefino perfettamente, compenetrandosi con l'aglio per dar luogo ad una odorosa crema marrone chiaro: la bagna caoda è fatta, l'olio non deve avere mai fritto né scoppiettato. Durante il servizio a tavola, si aggiunge olio se occorre, allungando via via l'intingolo di aglio ed acciuga.
La mise en table deve essere a rischio di ustione: ricordo un commensale calabrese, ignaro della temperatura del contenuto della pentola, aver imboccato un bel cucchiaio caldo di bagna cauda ed essersi così ustionato, staccandosi il primo strato di pelle del palato, inficiandosi i pasti per giorni interi. La bagna cauda deve arrivare in tavola alla temperatura del piombo fuso e tutti devono servirsi dallo stesso tegame! Ma con calma e paziente attesa, prima godendosene l'effluvio e aspettando che l'olio finisca di esibirsi in bollicine sulla superficie della bagna.
Una vera bagna cauda si riconosce anche dopo quattro giorni...vissuti in solitudine estrema poichè da tutti sei scansata.
Il cibo è certamente un elemento di identità culturale, locale, regionale, nazionale.
" Ogni cultura ha un codice di condotta alimentare che privilegia determinati cibi e ne vieta o rende indesidarebili altri. Esso è determinato dalle componenti geografiche, ambientali, economiche, storiche e nutrizionali che caratterizzano la cultura stessa. se si evita di considerare i casi incui è la mera sussistenza a dettare ciò che si deve mangiare, il cibo cessa di essere un bisogno fisiologico e diventa una necessità culturale.
E' pratica di uso comune attribuire determinate pietanze alle relative culture, così come identificarne altre in base alle rispettive abitudini a tavola. siamo ciò che mangiamo, recita un detto di antica memoria, e di fatto il cibo connota popoli, culture e società in base alla direzione che la loro alimentazione ha seguito.
Nell'approdare a culture altre, più o meno diverse e distanti, soprattutto quando la permanenza in queste è prolungata o forzata, sorge il desiderio di rimanere ancorati alla propria identità, di tenere aperti i collegamenti con le proprie radici, con la proprie abitudini e con la propria cultura.
Migrare implica non solo uno spostamento territoriale, un cambiamento fisico dei luoghi e delle persone con le quali si sono instaurati solidi legami, ma anche passare da una cultura, la propria, ad un'altra. nel lento processo di scambio interculturale che la migrazione presuppone, passaggio destabilizzante ed incerto in proporzione alla distanza tra la propria cultura e quella di adozione, sono necessari degli elementi che permettano di amntenere la propria identità.
(...) in primo luogo il cibo, cioè consumare una pietanza legata al proprio paese, contribuisce in maniera determinante ad affermare l'identità dell'individuo e del gruppo etnico. In secondo luogo il pasto, in quanto azione strutturata e dotata di senso, essendo un momento di incontro, agisce da tramite tra culture, favorendo l'integrazione. Contaminazioni culinarie. "
( da "Il cibo come elemento di identità culturale nel processo migratorio" di R. Pravettoni)
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