Paperino Surfista

ARTIST STATEMENT


Artist Statement

Vidi per la prima volta quest'opera di Joseph Cornell quando avevo 18 anni, alla Biennale di Venezia. Ricordo come in un flash back di essere entrata in una sala e averla vista entrando sulla mia destra: ne sono rimasta incantata, affascinata e impaurita. Questa creazione è molto inquietante, guardandola dal vivo se ne possono percepire la polvere, l'odore di cantina con la sua sfumatura di muffa, sui polpastrelli il ruvido delle vesti sgualcite della bambola e dei ramoscelli che sono come le sue sbarre; al contempo sembra avanzare in una radura tra gli arbusti ma altrettanto le pareti della scatola non le lasciano spazio intorno e forse venisse rovesciata parrebbe essere adagiata in una rozza bara di assi di legno. Forse è una bambola dimenticata dalla bambina che ora è una donna adulta, forse si sente sola o forse è indifferente al suo destino: ma è restata lì dentro, immobile prigioniera ingiallita  il cui sguardo è difficile a reggersi proprio per la sua inespressività.
Ed ecco allora il marchio a fuoco freddo nel cervello, nello spirito: una leggera punturina di cui certo non mi accorsi a quell'epoca in cui tutto mi si apriva davanti e avrei visto e visitato tanti altri luoghi dell'arte, spesso in luoghi non deputati a tali. Per descrivere quello stato d'animo mi vengono in mente le parole dell'angelo Damiel all'inizio de "Il cielo sopra berlino" di Wim Wenders:

  Quando il bambino era bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino era bambino, | non sapeva di essere un bambino, | per lui tutto aveva un'anima | e tutte le anime erano un tutt'uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente aveva un'opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, | e di colpo sgusciava via, | aveva una vortice tra i capelli | e non faceva facce da fotografo. "Song of chilhood" di Peter Handke
Me ne dimenticai per anni. Perchè così succede a volte. Per la verità me ne dimenticai per anni a tal punto che quando andai nel 1991 a New York non mi accorsi della presenza di Cornell al MOMA: eppure, in quei mesi di solitudine relativa, al MOMA ci passavo le ore.
 Le teche Ikea® sono oggetti seriali, omologati ed omogenei, riproducibili in un numero indefinito di esemplari, non diversamente da come si riproduce indefinitamente la loro matrice biologica, chi li produce: l'uomo. Protesi esterna, come se aprissimo la teca cranica, come se essa si schiudesse e potesse esibire le sue rappresentazioni, come su una scena. Le teche sono questo. Una teca cranica, una sezione trasversale di teca cranica.


Io prediligo colori nitidi, amo la luce, uso oggetti apparentemente innocenti con ironia e talvolta cinismo, trasfiguro innocui pupazzetti giocattolo, amo le trasparenze.

Vi sono molti artisti che sono stati ispirati da Joseph Cornell e molti che usano boxes, contenitori ( ho visto anche dei televisori "svuotati" usati come palcoscenico), ho già incontrato altre teche ikea in giro per l'Europa. Ovviamente il punto di partenza non è il supporto, sia che possa essere un portafoto ikea®, una cassa di bottiglie di vino, una tela, i colori ad olio, la creta, il marmo, un rullino fotografico. Proprio Marcel Duchamp credeva fermamente che l'arte è quello che noi immaginiamo sia arte.
Prendendendo spunto da un fatto accaduto lo si può o voler ricordare oppure esorcizzare; si può usare lo spazio-teca per rappresentare un sogno, un desiderio, una malinconia, un rimpianto. Vi si può esprimere un pensiero, un ideale, una critica, fare un personale commento, individuare dei protagonisti simbolici e spostarli, ridimensionarli, impoverirli o arricchirli.
L'individuazione degli oggetti o dei personaggi e la loro collocazione all'interno dello spazio-teca ha molta importanza, come nel palcoscenico teatrale. Non è detto che un'immagine piccola messa sullo sfondo non sia la chiave di lettura dell'intera teca ( vedi l'immagine di Sigmund Freud in alto a sinistra in "Questi fantasmi").
Ho guardato per anni, ho osservato per anni: quadri, fotografie, sculture, presepi, vetrine, installazioni, oggetti d'arredamento, copertine di dischi, manifesti di ogni tipo, stoffe, lungometraggi e cortometraggi, sbirciato attraverso finestre e appartamenti illuminati,..
Li ho messi nelle teche, ho aperto un palcoscenico, creato una scenografia in cui si muovono i protagonisti delle mie rappresentazioni, in un fermo immagine simbolico.


Io prediligo colori nitidi, amo la luce, uso oggetti apparentemente innocenti con ironia e talvolta cinismo, trasfiguro innocui pupazzetti giocattolo, amo le trasparenze.

Vi sono molti artisti che sono stati ispirati da Joseph Cornell e molti che usano boxes, contenitori ( ho visto anche dei televisori "svuotati" usati come palcoscenico), ho già incontrato altre teche ikea® in giro per l'Europa. Ovviamente il punto di partenza non è il supporto, sia che possa essere un portafoto ikea, una cassa di bottiglie di vino, una tela, i colori ad olio, la creta, il marmo, un rullino fotografico. Proprio Marcel Duchamp credeva fermamente che l'arte è quello che noi immaginiamo sia arte.


Prendendendo spunto da un fatto accaduto lo si può o voler ricordare oppure esorcizzare; si può usare lo spazio-teca per rappresentare un sogno, un desiderio, una malinconia, un rimpianto. Vi si può esprimere un pensiero, un ideale, una critica, fare un personale commento, individuare dei protagonisti simbolici e spostarli, ridimensionarli, impoverirli o arricchirli.
L'individuazione degli oggetti o dei personaggi e la loro collocazione all'interno dello spazio-teca ha molta importanza, come nel palcoscenico teatrale. Non è detto che un'immagine piccola messa sullo sfondo non sia la chiave di lettura dell'intera teca ( vedi l'immagine di Sigmund Freud in alto a sinistra in "Questi fantasmi").
Ho guardato per anni, ho osservato per anni: quadri, fotografie, sculture, presepi, vetrine, installazioni, oggetti d'arredamento, copertine di dischi, manifesti di ogni tipo, stoffe, lungometraggi e cortometraggi, sbirciato attraverso finestre e appartamenti illuminati,..

Li ho messi nelle teche, ho aperto un palcoscenico, creato una scenografia in cui si muovono i protagonisti delle mie rappresentazioni, in un fermo immagine simbolico.


La tecnica è quella dell'assemblage, unita sovente a quella del collage. Sono scatole, o art boxes per gli americani, ma io le chiamo teche: un pò per evitare facili inglesismi, un pò perchè la parola "teca" meglio esprime l'intento. In italiano la teca è associata ad un reliquiario, un contenitore di resti simbolici che hanno la funzione di ricordarci la biografia di un personaggio (normalmente un santo nella nostra cultura di provenienza cattolica) e suscitare devozione e/o venerazione. Questo elemento fortemente simbolico, evocativo nelle mie teche, si unisce alla tradizione delle Wunderkammer, che potevano essere naturalia o artificialia ( o entrambe ), in cui si mescolavano soggetti e oggetti che nulla avevano in relazione tra loro se non il destare curiosità e , giustappunto, meraviglia in chi le guardava. Un terzo elemento è la lezione surrealista. I Surrealisti sostenevano che la funzione dell'artista, o del poeta, fosse quella di comunicare il primitivo concetto dell'immacolato ( il momento dell'intuizione ) non descrivendolo, ma selezionando l'immagine o la parola appropriate come simbolo, che sarebbe dovuto servire da stimolo o da fastidio per i sensi dello spettatore. Questo è il meccanismo delle teche.
Lo straniamento dell'oggetto, in particolare la sua separazione dalle cose che che sono abitualmente, per consuetudine, collegati ad esso e da ogni forma consueta di narratività. Oggetti che formalmente appartengonoa piani separati, sia nello spazio che concettualmente, sono inaspettatamente posti in allineamento o in giustapposizione. Al di là di cosa io voglia/possa esprimere, questo assemblare, questo mettere in relazione costituisce il motore per il sorgere di altre immagini e/o emozioni differenti, in sintonia con la sensibilità del fruitore, corrispondenti al linguaggio del simbolo, sia esso esplicito o arbitrario.
 Quindi, nello spazio-teca trovano collocazione degli oggetti ( di qualsiasi tipo o natura, trovati, comprati, usati, rotti, rimaneggiati, ...) di uso comune, di facile reperibilità, che assumuno un'altra funzione rispetto a quella a cui erano destinati in produzione. Alcuni rivelano una natura simbolica che hanno acquisito nel corso della storia dell'uomo moderno, o altri li eleggo come rappresentativi, iconografici, ironici, dissacratori, critici, accusatori. La teca a questo punto diventa un rebus tridimensionale di un concetto, di un principio o di una storia.




Le prime teche che ho esposto sono oggetti fabbricati in serie, vendute dal colosso Ikea®. Il contenitore, la scatola, è stata scelta proprio perchè impersonale, riproducibile. 
“ Le teche Ikea sono oggetti seriali, omologati ed omogenei, riproducibili in un numero indefinito di esemplari, non diversamente da come si riproduce indefinitamente la loro matrice biologica, chi li produce: l'uomo. Protesi esterna, come se aprissimo la teca cranica, come se essa si schiudesse e potesse esibire le sue rappresentazioni, come su una scena. Le teche sono questo. Una teca cranica, una sezione trasversale di teca cranica.
In realtà sono dei portafoto che hanno una profondità di circa 3 cm.
Questa scelta era coerente con l'interno della teca, cioè utilizzare oggetti comuni che chiunque potesse trovare per strada o acquistare in un qualsiasi negozietto o mercatino dell'usato.
Poi la scatola si è evoluta, il contenitore si è fuso col principio del contenuto: ho iniziato ad utilizzare qualsiasi scatola mi capitasse sotto tiro. Una cassettina per la frutta, una cassa per la bottiglia di vino, una cassa di orologio, un portaposate, ad esempio. Alcune sono state costruite da me o me le hanno costruite. Altri "contenitori" mi vengono regalati dagli amici. 
Il collage è artigianale: ritaglio di immagini, di cui possiedo una raccolta catalogata, e colla. Non amo la rielaborazione al computer con Photoshop perchè si perde la visione della manualità del lavoro, non si percepiscono i diversi tipi di carta ( di quotidiano, di rivista, di un vecchio libro, colorata, bianco e nero, ingiallita, lucida, opaca,...) e il suo millimetrico spessore che varia. I collage artigianali sono come un sottile rilievo: la computer graphic è affascinante ma rende il tutto piatto una volta stampato il collage fotografico con una stampante. Il collage artigianale mi ricorda di più la pittura ad olio e la possibilità che essa dona di distinguere la corposità variabile delle pennellate.
L'assemblage apre una possibilità infinita di tecniche di realizzazione, di cui sono alla costante ricerca e per cui spesso consulto artigiani e tecnici, che hanno a che fare con la lavorazione di materiali  diversi. La ricombinazione di oggetti e materiali è infinita.