Paperino Surfista

lunedì 28 marzo 2022

I cani vecchi non sognano padroni nuovi

 I CANI VECCHI NON SOGNANO  PADRONI NUOVI


"I need a change", collage,


"I cani vecchi non sognano padroni nuovi:
nella loro decrepita senilità sognano altre case,
scale strane, odori bizzarri,
mobili inconsueti, una topografia sconosciuta.
Ed è meglio non disturbarli.
Il segreto è tutto qui." 

Josif Brodskij
"Fondamenta degli incurabili"



Ascoltando: una canzone dei Beatles di cui conosco il testo a memoria.
Mangiando: un cioccolatino con all'interno una nocciola del Piemonte.
Bevendo: un calice di vino rosso che nasce nelle colline nebbiose.
Indossando: una camicia stropicciata e una cravatta nera.
Sentendomi: stanchissimo e assonnato, cerco di resistere più a lungo possibile sveglio.
Meteo: sono le 9 di sera di un autunno quieto.
Volendo: esser seduto in un salotto elegante e caldo, come avevo scorto una sera a Venezia.
Necessitando: di non andare al lavoro domani.
Pensando: a Davide Arena che è in Messico.
Provo gioia nel: guardare il mio cane che sonnecchia e io che sorseggio il vino.

Il mio dilemma sei tu: io sono sempre stato un uomo semplice ma tu hai deciso che ero complicato e ti ho assecondato. La mia famiglia voleva che facessi il farmacista e io volevo guidare un carrarmato: sono finito a fare l'impiegato anche perchè se De Andrè ci dedicò un album, non doveva essere così male quel mestiere. E, come l'impiegato del Faber, mi sono ritrovato con idee rivoluzionarie in testa che alla fine galleggiavano come relitti in un oceanico individualismo cinico.
Una voce assetata di acqua mi parlava sempre da dentro, con chiarezza, e mi consigliava di fermare e arretrare, auspicando che il momento del segnale per fare il grande balzo sarebbe arrivato e non avrei dovuto sprecare tutto quel fuoco ardente, né  scoprire le carte subito: e invece mi sono fatto letteralmente fare a pezzi dalla mia ambizione, maciullare dal denaro che è diventato nel corso di questi anni il Signore della mia Oscurità, un capolavoro rovinato da due divorzi isterici e sterili, sgarbati fin sopra le righe. Ogni volta me ne sono andato con un'uscita da grande diva, senza voltarmi indietro e lasciando tutto ciò che c'era di materiale, lì, per insultare la persona rovesciandole addosso la sua meschinità per l'attaccamento agli oggetti  e per far ben comprendere quanto fosse  cosa grave il perdermi. Erano chiaramente mie fantasie e alla terza casa mi sono detto che non avrei mai più stabilito connessioni strette con nessuno: e così fino ad ora è stato e la situazione non è da riconsiderare, vedo ormai il mondo da una prospettiva sgranata dai pixel impazziti.
Mio padre si chiama Giacinto, ha circa 80 anni e non ha mai cambiato la montatura degli occhiali dalla prima volta che glieli ho visti sul naso: cambia le lenti ogni tanto. E' sveglio, vispo, disincantato e ha le stesse abitudini e gli stessi vestiti da anni: ed è sempre per abitudine che stanno insieme i miei genitori, da anni e anni. Vanno sempre ogni anno, da quando ha aperto il "Museo della Natura Morta", a Poggio a Caiano, qui nei pressi di Prato. Hanno un loro quadro preferito:



Giovanna Garzoni "Natura morta con popone su un piatto, uva e una chiocciola" 1650

Eseguito da una pittrice donna, Giovanna Garzoni (1600-1670 circa), originaria di Ascoli Piceno, che prediligeva  come tecnica la tempera su pergamena; passò per Torino ( città in cui mi sono sempre ripromesso di andare) alla Corte dei Savoia.  Ai miei genitori garba in un modo che non si sa spiegare: a volerla dire tutta, il piatto non è ben disegnato e anche lo scorcio e la prospettiva del melone sono da correggere, eppure loro ne subiscono un'attrazione misteriosa; sarà per la mosca, che piace molto al babbo, o per i chicchi d'uva ( "Venti, in primo piano", aggiunge sempre Amaranta, mia madre) che invece inghiottosiscono gli occhi alla mamma. E sempre, al ritorno da questi loro viaggetti e trastulli, ripetono all'osteria e al bar dove giocano a carte, di aver visto la Garzoni come se avessero visto il Buonarroti e ribadiscono sia la grandezza di quest'opera sia l'incorrotta cucina di una locanda di Artimino, che esiste da moltissimi anni, e che continua ad essere "qualcosa da leccarsi i baffi".
La loro vita, insieme da anni, a ricordar fino i 17 anni,  io non ce l'avrò mai, io non ce l'avrò più: solo la prima volta che mi sono innamorato, se fosse stato per sempre ( non dico l'innamoramento, ma se mi fossi trovato nelle condizioni di non potermi separare), allora proverei la sensazione che vedo provare a loro: ma ero già nato col divorzio libero, era più probabile che mi separassi piuttosto che resistere in un recinto di relazione. E non saprò mai cosa  è quel pensiero che ormai non ti infastidisce più, l'emozione che ora è gratitudine dopo aver cambiato tantissime forme ed esser passata dall'essere le farfalle nello stomaco alla voglia di cavare gli occhi al tuo coniuge. Se ti ho tradito, non ricordo; se sono stato tradito, non ricordo. I vecchi matrimoni ben riusciti, in cui i coniugi son diventati fratello e sorella e "Chissà i chi ci ha dato quella Gondoletta di Venezia posta sul centrino sopra il comò, era il viaggio di nozze di chi? Chi si era sposato? ah già, io e te!".
 Il mercato libero mi ha reso un uomo solitario e scontroso, sfiduciato: sono un collage commemorativo di cartoline sbiadite, pentito di aver scongelato dei sentimenti, e la mia vita sessuale sembra il culto dei morti, interfacciandomi con signore disperate sui siti d'incontri. Una posizione di luce radicale che ho adottato da tre anni, senza nemmeno dover spendere i soldi per una cena e poi chissà: il mio mondo si è enormemente avvantaggiato di queste opportunità che si moltiplicano, sfoglio almeno una volta alla settimana i "cataloghi" on line, come se fossi in una pasticceria dal menù  interminabile. Donne sole, donne disperate, donne che hanno paura di essere sole e disperate e credono così di celare di essere sole e disperate; sorridenti, ammiccanti, tristi, maliziose, porche, timide sobillate da chissà quale amica cattiva consigliera; se ne stanno tutte lì appollaiate al filo della tensione della chance di incontrare il vero secondo o il vero terzo amore della loro vita. Si credono spigliate.
Mi sono abbastanza tenuto bene col passare degli anni: non ho mai amato lo sport e non comprendo chi lo pratichi ossessivamente, ma ho la fortuna di avere un fisico longilineo e di non essermi sfondato come tanti miei vecchi amici: un moderato ma frequente uso di cannabis da giovane che ora diventa occasionalissimo quando mi incontro saltuariamente con una combriccola che conobbi in un paesino su per i monti, anni e anni or sono. Un uso quotidiano serale di vino definibile come modica quantità, ho smesso di fumare ma non sono diventato uno che fa prediche se altri fumano. Per inciso, non mi garbano le donne che fumano troppo: non hanno idea di come i  profumacci che si versano addosso si mescolino alla nicotina, producendo un odore stomachevole, per cui escludo dagli appuntamenti quelle che dichiarano di essere fumatrici, anche se scrivono di essere "occasionali" o di "fumare poco", perchè sono quelle che cercano di pescare in più vivai differenti, tenendosi aperte più occasioni possibili di incontrare Mr. Right.
Continuando sull'argomento olfattivo, un altra fregatura con le signore è la tinta per capelli: certo, molte persone iniziano ad esser canute da giovani, e pazienza. ma è una verità che invecchiando s'ingrigisce e quindi le tinte vengono utilizzate in abbondanza. Ebbene, questo talvolta è un miasma ammoniacato che, come la nicotina stantia, si integra con l'onnipresente e abbondante profumaccio di cui sopra. Dei colori orrendi ed impropri proprio non mi curo, non mi nego di sicuro una chiavata per quei rossi o quei neri o quei biondi inverosimili: anzi, quando sfoglio il catalogo dell'offerta muliebre  vado alla ricerca proprio dei colori più improbabili e poi faccio scommesse con me stesso sul colore dei peli pubici!


"Va bene così", collage



Ogni donna, al primo appuntamento, porta nella borsetta la sua tavolozza rosicchiata e sgualcita dal tempo che è passato, su cui sono rimaste tracce di colori che non si trovano più, macchie dei colori usati  più spesso che hanno impregnato il legno, rimasugli di tentativi di miscuglio per creare una nuova sfumatura che ridesse colore alla loro vita, colori ad olio rinsecchiti  che nemmeno l'essenza di trementina rettificata potrebbero ridiluire, colori che non ci sono mai stati  ma che esse pretendono di aver visto nella loro vita e ti chiedono disperatamente di confermare che tu, anche tu, li stai vedendo sulla loro tavolozza, che non si sono inventate tutto, che non sono state usate o tradite, che hanno avuto un grande amore e che non è stato solo un bluff, perchè poi le cose non siano finite bene, bhè, sai, capita...questa è la cosa che mi da più pena, dover mentir loro su quell'argomento per portarmele a letto.
 Non  mi sento in colpa a mentire, ma eviterei di farlo se  quelle poi non ti si appiccicasssero : quando te ne vuoi liberare di solito ti scrivono almeno dieci messaggi su WhatsApp per spiegarti quanto io sia un cretino insensibile immaturo approfittatore. Vorrei far capire loro che non sono io la soluzione per salvarti la vita, per ridare colore alla tua vita, per togliere le macchie da un abito sbiadito e ingiallito: io ormai so di vivere una vita in bianco e nero, quindi vorrei scopare solo con le disilluse come me. Ma non le trovo, cribbio! Io seleziono e contatto solo ed esclusivamente donne che dichiarano  di non cercare il grande amore, né di voler subito e a tutti i costi iniziare una relazione, donne che asseriscono di darci il tempo per conoscerci: ma ci finisco a letto praticamente la prima o la seconda sera e non so nemmeno se  preferiscano i Led Zeppelin o i Pink Floyd, e subito sento che per loro il sesso ha già costituito un legame, che la costruzione di giornate a seguire potrebbe anche essere pensabile, concepibile, plausibile. 
Me ne concedo una al mese, come media: ci metto una settimana a selezionare le nuove proposte e trovo che, rispetto alla posta del cuore di francavaleriana memoria, ci sia davvero una maggioranza di donne.  Ne trovo sempre di nuove, oppure ripasso su alcune che avevo scartato per un particolare che già mi subodorava di appiccicaticcio e che hanno aggiustato, per così dire, il tiro e abbassato le pretese. Vuol dire che sono già nel territorio della disperazione, quindi puoi anche impegnarti meno per portartele a letto: sono così a digiuno di sguardi carezzevoli, gentilezze, complimenti, che non devo nemmeno sfoderare il mio repertorio più raffinato. Avevo iniziato con Meetic, poi siamo stati rimpinzati da Academic Singles, Our Time, Singles 50, Cupid, Solo avventure, Want matures, Charm date, Senza pudore, CDate, Badoo, Tinder, Facebook dating, Lovepedia, Lovoo... hanno riempito il centro commerciale del dating a dismisura, una pacchia!
Io nutro una particolare simpatia per le tardone sole: sono gentili, cercano di farsi belle, al fondo dei loro occhi c'è già la certezza della comprensione che non intraprenderò mai una relazione con loro ma, malinconicamente, ormai sono sedute al tavolino, hanno già ordinato un caffè macchiato, e il tornare a casa coll'ennesimo rifiuto, senza mai poi ben capirne il perchè, proprio non riescono a sopportarlo. Quindi, e qui sta il bello, decidono che ormai sono uscite di casa, ormai hanno speso i soldi per il parrucchiere e un accessorio nuovo (sia mai che porti fortuna), ormai cosa possono fare per tirarsi indietro? E per la loro misericordia, portano innanzi la serata. Hanno davanti un uomo belloccio, gentile, non volgare, sorridente, che dispensa qualche complimento senza esagerare (sennò si capisce che menti), che le sta ad ascoltare e interagisce, dando loro ragione su come hanno risolto le difficoltà incontrate nella vita, sia con il lavoro, o l'eredità di famiglia, o la scelta del tipo di studi da far fare ai loro bambini, o la casa da comprare quando andranno in pensione per lasciare quella di città ai figli, bla bla bla. 
Se ascolti e annuisci l'interlocutore ne ricava sempre l'idea che tu lo stia proprio capendo e che la pensi  uguale, non gli vagola nemmeno nel cervello che o tu ti stai annoiando o che non lo stai proprio ascoltando; per le donne questo si traduce in una similarità e affinità che le porta a pensare che, anche se hanno già capito che non vi erano da parte mia intenzioni di andare oltre quel one night stand - parole che non ho mai detto ma che, come spiegavo prima, vengono riflesse come la mia verità al fondo dei loro sguardi splenici e clementi - forse c'è una speranza che porterà ad un secondo appuntamento, la speranza che quel "abbiamo parlato così bene insieme" mi faccia rinunciare ad incontrare le altre donne  del catalogo, mi tolga ogni curiosità su chi può apparire la videata successiva e invece approfondire la conoscenza di una così eccezionale donna e per un pò provare a frequentarsi .
E io quella speranza la alimento perché quello che voglio portarle a pensare è: "Ecco, si capisce che da quest'uomo ci ricavo una serata scopereccia, però, adesso che ci siamo parlati, credo abbia capito che si trova davanti una che non è come tutte le altre. Ne avrà incontrate di più belle e magari più giovani di me, ma la testa che ho io, la mia particolarità, la mia essenza, la mia unicità, lo hanno già colpito. Questo magari non si farà sentire  subito domani o dopodomani, ma dopodomani l'altro sicuro: perché ripenserà a me , ne sono certa, e capirà che non sono come tutte le altre, che come me non se ne conoscono mica molte. Magari all'inizio potrà avere delle titubanze, me lo dicono sovente le amiche che faccio paura agli uomini per la mia sicurezza e la mia indipendenza, ma sono sicura che le cose che gli ho detto io non lo hanno lasciato indifferente e che si rifarà vivo, mi cercherà!"
Così si rilassano, cullandosi nella loro chimera romantica, si danno una possibilità e mettono, secondo loro, fuoco sul fuoco, accantonando finalmente l'immagine di donna sfigata che si fa dare una spolveratina e la sostituiscono con quella di una donna nuova, padrona della sua vita, libera di vivere la sua sessualità che finalmente è stata rivelata e io, il sottoscritto, bramerà certamente rivederla. In poche parole, con queste tardone io mi faccio delle gran belle e divertenti scopate, perché  ci mettono davvero un sacco di impegno e buona volontà per darti una doppia ragione di ritorno: abbiamo parlato bene insieme e siamo anche stati bene a letto insieme...quindi vedrai che prima o poi si rifà vivo.

"Schemi fissi e rigidi replicati all'infinito", collage

Ma io non mi sono mai fatto risentire proprio da nessuna, non si devono preoccupare di risentirmi, di conoscermi meglio, per poi essere il solito uomo che le ha deluse, ingannate, che era diverso all'inizio, che da me non se lo sarebbero mai aspettato, che se lo avessero saputo avrebbero subito cambiato strada. E io le capisco, eccome! Tengo caro il collage commemorativo delle mie cartoline sbiadite, che così sbiadite non sono, purtroppo: potessi non vedere più vividamente il suo profilo accanto al mio quando mi giro nel letto la mattina, potessi non ritrovarmi in tanti luoghi e non dovermi ricordare ogni volta che non ero da solo quando li frequentavo, potessi parlare di me stesso al passato con la prima persona singolare invece che la prima persona plurale, l'altra che era compresa nella mia prima persona plurale e che ora fa la prima persona plurale con qualche altra persona che una volta era singolare. Ma non sono affari miei. Chi crede ancora nell'amore ha il mio apprezzamento sincero, vanno elogiate le persone che fanno affidamento sulla ventura di imbattersi in un'attrazione che si solidifichi in una relazione stabile. Non riesco più ad immaginarmi una giornata normale con un altro essere accanto, dall'alzarmi dal letto al coricarmici: soprattutto la mattina quando allargo braccia e gambe per striracchiarmi e il cane balza sul letto festoso. Preferisco raccontarmi le cose a voce alta, parlando col cane che dondola la testolina tra il mio sguardo e la mia mano che afferrerà immantinente la sua ciotola e gliela riempirà di pappa. Un caffé in santa pace, un guinzaglio e un giretto e rieccoci a casa: il bagno non è occupato, nessuna radio accesa che gracchia o televisione che inizia a vomitare brutte notizie. Se sento il vuoto? Certo che sento il vuoto, ma non è certo una scassacazzi che mi occupa il bagno al mattino che mi farebbe sentire meno solo. Il  vuoto che si è creato più si svuota, più si  allarga:  e più s'allarga più è difficile da riempire. All'inizio, quando  mi trovai solo, il vuoto da riempire era grande come un vaso per una pianta di limoni: se fossi stato guardingo l'avrei subito riempito con altra terra e magari avrei cambiato pure pianta, dopo anni di limoni aspri. Invece mi  ostinai a rivolere indietro la mia prima persona plurale e intanto mi distrassi e non tenni d'occhio il vuoto: esso si allargava sempre di più e io mi distanziavo dal bordo di salvataggio. Come un Major Tom fluttuo ora nel mio vuoto cosmico, senza speranza di ritornare alla base e mai, per nessuna ragione, rientrare dallo spazio e  recuperare una corda di salvataggio: sono andato dietro una vocina sgrammaticata che mi prometteva nuovi approdi, nuovi sbocchi, nuovi traguardi. Dovevo restare dove ero, senza improvvisarmi novello Odisseo: io ora sono la mia Itaca disabitata, senza Proci e senza Penelope, senza Laerte e senza Telemaco. Non do permesso di sbarco a nessuno: possono attraccare le navi al porto, girare nel porto, ma qui su quest'isola non si stabilirà mai più nessuno, perché ho imparato ad amare il silenzio e la solitudine e non riesco a barattarla, nonostante il dolore e la tristezza, con la presenza di chicchessia purché ci sia. Ci vorrebbe una taumaturgia.

"La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza"
Pier Paolo Pasolini             


"Chasing sheep is best left to sheperds", collage



Quando mi sveglio la domenica mattina , se posso, faccio un giro in moto da Prato verso Pistoia. Se mi garba mangio dai miei genitori, Giacinto e Amaranta, con mia sorella Laconia ( la manìa dei miei genitori per l'Antica Grecia nel caso di mia sorella l'è diventata proprio una lepidezza)  , mio cognato  Paolo e miei nipoti: e quelle sì che son conversazioni che mi piacciono molto. Mi trovo bene da sempre in quei convivii e ora che posso li frequento con assiduità. Ma prima passo da casa a prendere Lampo, il mio compagno inseparabile ormai: è grazie a lui se non passo mai un giorno senza scambiare parola con altri esseri umani, perchè altrimenti, non dovessi portarlo giù e fargli fare le passeggiate, sarei ormai in grado di restare anche un intero fine settimana senza parlare con nessuno.

 

"La sacra dei santi gatti", collage


Ascoltando: J.S.Bach "Prelude and fugue in C, BWV531", by Kevin Bowyer
Mangiando: noodles.
Bevendo: una birra cruda non pastorizzata artigianale.
Indossando: pantalone afgano beige e una t-shirt bianca.
Sentendomi: rilassato davanti al mio pomeriggio di buen retiro.
Meteo: sono le 12:30 di una domenica  di fine primavera.
Volendo: esser esattamente dove sono.
Necessitando: di almeno altre due birrette fresche.
Pensando: cosa leggerò oggi pomeriggio.
Provo gioia nel: guardare il mio cane che sonnecchia e io che bevo birra.




















giovedì 24 marzo 2022

Siamo troppo affezionati al nostro dolore

 Siamo troppo affezionati al nostro dolore



Sono troppo affezionato al mio dolore per infilarmi i calzini prima di indossare le mie Clark's blu, sono troppo affezionato al mio dolore per infilarmi un paio di mutande sotto i jeans, sono troppo affezionato al mio dolore per indossare almeno un maglione sotto il piumino giallo oro, sono troppo affezionato al mio dolore per non mettermi che in tasca il mazzo di chiavi di casa mia e il mio cellulare,  solo per ascoltare le colonne sonore di Ennio Morricone, quelle più tristi, ovviamente.
Esco una sera di sabato, all'improvviso, come fossi spinto da un impulso irrefrenabile, uno zombi obbediente al richiamo da parte del bokor, passo spedito, non ho portato con me documenti, non ho un soldo in tasca e le mie gambe si muovono da sole e si dirigono verso il mausoleo. Rispetto a malapena i semafori del traffico serale, avanzo come se mi trovassi sul carrello di una dolly: e da lontano già, sul ponte della ferrovia, mi appare uno scorcio del mausoleo. 
Sono troppo affezionato al mio dolore per non prendere la scorciatoia che porta alle vecchie case popolari senza tagliare per il giardinetto, luce fioca, rifugio dei tossici; sono troppo affezionato al mio dolore a tal punto che saprei difenderlo, anche se mi aggredissero fisicamente e poi infierissero su di me perchè non troverebbero  nemmeno un centesimo in tasca; sono troppo affezionato al mio dolore per non farmi pestare a sangue.
Nulla di tutto questo succede, passo attraverso alcuni tizi, ma il mio sguardo frigido è eloquente e godo del temporaneo salvacondotto della mia andatura cibernetica, che nulla ha di umano. Arrivo al muretto del mausoleo, guardo le finestre spente del vecchio appartamento, come annusando l'aria: quelle finestre da cui non proviene luce mi imbambolano e ricordo come da lì, da lassù, si veda l'acciottolato illuminato dal lampione giallo: è come se fossi ancora in piedi, di sera, dietro le tende di quelle finestre, e non sotto sul marciapiede, come sono nel qui e ora.
E mi osservo da sotto sbirciarmi da dietro le finestre , vedo me stesso che scosta appena la tenda della stanza buia e retrocede, perchè sa che io da quaggiù l'ho scorto,  l'altro me stesso, quello che era vissuto lì, mi sta guardando da anni addietro. Io e me stesso ci guardiamo per un pò, uno dietro quella finestra spenta e l'altro sotto sul marciapiede, col naso all'insù. Cosa vorremmo dirci? Io ora gli direi" Vai via, finchè sei in tempo!" e lui, di rimando, mi dice "Resta, finchè sei in tempo". 
Sono troppo affezionato al mio dolore per non guardare la panchina del cortiletto su cui mi fumavo l'ultima sigaretta prima di salire in casa, sono troppo affezionato al mio dolore per non approfittare di una macchina che esce e intrufolarmi, attraverso il cancello apertosi, in quel cortiletto condominiale, senza pensare a come uscirne dopo che la porta automatica si  sia richiusa alle mie spalle, senza sperare che un'altra auto esca o rientri a quell'ora di notte. Ed eccomi dall'altra parte dell'appartamento, a guardare ancora all'insù.
Sono troppo affezionato al mio dolore per non distinguere chiaramente la finestra del bagno, la porta finestra della cucina e la finestra della camera da letto, senza aver la capacità di visualizzarmi camminare come un ladro in quella casa buia, come se stessi compiendo un viaggio astrale o uno sdoppiamento, mentre, so benissimo, che si tratta solo di una buona capacità di visualizzazione unità a una discretamente sviluppata memoria visiva. Sono troppo affezionato al mio dolore per non notare che un' orrenda tenda da sole a strisce bianche e blu è stata lasciata sul balcone dall'estate scorsa e penzolacchia a lato, raggomitolata con uno spago sul lato destro della porta della cucina; per non notare  delle maglie a maniche lunghe stese, dopo esser state direttamente tirate fuori dalla lavatrice; per non notare il disordine e la trascuratezza che trasudano da quel balcone del terzo piano. Sono troppo affezionato al mio dolore per prendere atto che questo non è più affar mio. 
Il cancello si apre per far entrare un'automobile che torna a casa. Decido che il compianto sul mausoleo non può durare ancora a lungo con quel freddo: ritorno in strada, non prima di aver grattato via dal citofono il Dymolabel a sfondo verde col solitario cognome.
Sono così affezionato al mio dolore che immagino di esser appena da poco uscito di casa perchè ho dimenticato qualcosa sotto, in macchina, e di potervi fare ritorno tra un quarto d'ora con una cartellina dei consuntivi sotto il braccio, e avere ancora le chiavi di quella casa: riesco a illudermi fino alla salita di pietra del cavalcaferrovia. Sono troppo affezionato al mio dolore per non arrivare a metà del ponte e volgere lo sguardo indietro, dall'unica prospettiva, a me ben nota, che permette, attraverso il castra delle case popolari, uno squarcio sulla casa dai mattoni rossi. Sono troppo affezionato al mio dolore per non ascoltare proprio "Death theme", quella che in "The Untouchables" di Brian de Palma accompagna la morte di Jimmy Malone ( Sean Connery) quando viene ucciso da Frank Nitti ( Jimmy Drago). Sono troppo affezionato al mio dolore per non trovare così struggente e poetico che, proprio in quel momento un treno, passi sotto il ponte. Sono troppo affezionato al mio dolore per non tornare verso casa, la mia questa volta, come un reduce di guerra, chiedendomi cosa troverò al mio ritorno. 
Metto la chiave nella toppa: tutto è fermo nell'appartamento come l'avevo lasciato due ore prima, luce accesa in salotto, radio accesa. Perchè non c'è nulla che ci tenga più vivi del dolore.
E io sono troppo affezionato al mio dolore per permettergli di andare via, é per quello che son dovuto andar a inzuppare il mio cuore in quella malinconica promenade serale.
Sono troppo affezionato al mio dolore, ho un gran legame con esso, conosce tutto di me e non voglio lasciarlo andare via, perchè non è un quasi sconosciuto come sono invece la felicità, la gioia, la tranquillità o la serenità: non le conosco, o, perlomeno, non le conosco così bene e sono creature piuttosto volubili, non sai mai cosa fare per trattenerle, sbagli sempre qualcosa. Il dolore, come la solitudine, lo conosco bene e paradossalmente lo so trattare, lo so nascondere, lo far tacere davanti agli altri, so dove riporlo quando mi allontanerebbe le amicizie, riesco a tenerlo a bada quando mi urla di voltare le spalle ai superficiali: mi tiene, per dirla tutta, una gran compagnia e mi fa notare cose che hanno una poesia che proprio il dolore mi permette di vedere e di comprendere.
Sono troppo affezionato al mio dolore, perchè la notte, se, ad un certo punto, gli dico che ho proprio bisogno di dormire e di riposare, ecco che Lui si dirige sulla soglia della camera da letto, si accuccia lì, buono buono e mi dice: "Riposati ora. Io resto qui ad aspettarti. Se mi vorrai, domani ci sarò ancora, vicino a te, con te, ad ogni passo della tua giornata. Ma solo se tu lo vorrai. Buonanotte"



       “How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand... there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold.”


JRR Tolkein   

«Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita? Come fai ad andare avanti quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro? Ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano un segno.»

venerdì 11 marzo 2022

It tastes like heaven





 Sono seduta con Cornelius al secondo piano della Pasticceria Demel,  Kholmarkt 14, Vienna.  Sta prendendo appunti visivi sul suo libretto per schizzi, con la matita che ha portato con sé da casa, quella che poggia sul tavolinetto di legno di fronte alla poltrona, in un continuo balletto dello spostare il torso verso il tavolo, afferrare la matita, riappoggiare la schiena sulla poltrona, sottolineare socchiudendo miopiamente gli occhi, per poi di nuovo sporgersi col torso verso il tavolinetto di legno e ritornare ad appoggiare la schiena alla poltrona. Può eseguire questo ondeggiare scattoso anche per tre volte nel giro di cinque minuti. Solo due ore dopo, giunti al KunstHistorisches Museum, si accorge di aver perso la matita o, forse, l'ha dimenticata proprio nella pasticceria di corte. Dedicando un sospiro maliconico alla matita viaggiatrice, che dal tavolinetto del salotto di casa si trova ora chissà dove a Vienna, si inizia l'immersione. Dopo la prima ora mi trovo a scivolare in sale piene zeppe di giganti di Rubens, l'ammiratore di Tiziano: una sala è tappezzata di suoi quadri fino al soffitto. Ci saranno più Rubens o più Renoir al mondo? Non ricordo di aver visitato un museo senza che non esponesse un Rubens o un Renoir, di quest'ultimo, anche solo un disegno o una tela piccola: inoltre, la sua caratteristica di di eccedere col blush sulle gote di bambine e ragazzuole, e la sua pittura sgraziata, si fanno riconoscere anche a metri di distanza. Puoi esclamare, raccapricciando per la nota stonata da lontano, "AH! ecco un altro Renoir!".

 In questo museo il tempo si ferma: la sua accoglienza, accompagnata da comodissimi divani rivestiti di velluto color carta da zucchero presenti in ogni sala, è eccellente a tal punto che pare di esser seduti sul divano di casa e di aver la possibilità di guardare i quadri come se se ne fosse proprietari, i collezionisti. Nemmeno gli altri visitatori mi infastidiscono calpestando il parquet, attorniata da luci soffuse che illuminano i quadri e immersa in un biancore grigio perla di un piovoso pomeriggio autunnale che è un solenne invito a entrare e sprofondare ancora di più in questi capolavori. Alle 2:15 pm sono ancora nella sala dedicata ai Bruegel o Brueghel, comunque si preferisca scriverne il cognome. Gli spazi scenici accolgono quante più figure si possa immaginare: non si riescono a contare, spuntano come formiche da ogni dove. Quadri affollatissimi, ad alta densità di popolazione, mini kolossal con personaggi protagonisti in primo piano fino a comparse microscopiche della grandezza di moscerini sullo sfondo; e tutti con i loro dettagli, i loro accessori, il loro spazio vitale. Non è ancora sufficiente vederli dal vivo e a dispetto della miopia, credo serva ( come già pensai ieri davanti al Trittico di Bosch), dovendo mantenere una certa distanza di sicurezza dalle tele, un binocolo da teatro, osservati da uno spettatore come me, o semplicemente, una lente d'ingrandimento si avesse la possibilità di andarci molto vicino. Oso dire che incontrarli dal vivo è un'emozione analoga a quella che si prova nell'incontrare qualcuno che conosci da tempo tramite Webex, ti piace molto, e che hai l'occasione d'incontrare di persona .Ma i particolari si disperdono, se ne può apprezzare la raffinata alta definizione e precisione solo avendo molto tempo a disposizione e senza fretta. E ancora proseguo. Tutti, ovvio, assiepati davanti al celebre quadro di Vermeer "The art of painting", o "Allegoria della pittura" o "Pittore nel suo studio", del 1668: certo non è la ragazza con l'orecchino di perle, ma anche se aspetto con pazienza riesco a vederlo solo cosi:


Reincontro Cornelius davanti a Rembrandt. C'è una signora piuttosto infastidentemi perchè si è appropriata di un puff e guarda ammirata tre, dico 3!!!, autoritratti del mio amico van Rijn ( titolo che si è accaparrato per un lungo periodo di preparazione per sotenere un esame all'università dedicato esclusivamente a lui dal mio professore di storia dell'arte). Passo oltre e ,in un disimpegno, hanno posto un capolavoro:

"Testa di Medusa" Pieter Paul Rubens, 1617-1618

Allegoria della vittoria della ragione stoica sui nemici della virtù. In realtà i rettili furono dipinti da Frans Snyders, specializzato in animali nella bottega del maestro, ma, soprattutto, gli venivano bene i rettili in particolare ( c'è un suo prezioso ritratto eseguito da Van Dyck, ora alla Pinacoteca di Kassel, in Germania). Chi volle in casa un quadro così? L'opera è documentata presso la  Collezione Buckingam intorno al 1635-1648, poi dal 1685 è a Praga e poi, nel 1880, l'opera giunse a Vienna. Sulla verità della Medusa, rimando all'intervento nel link qui sotto riportato, perchè alcuni miti e alcune simbologie sono state rimodellate bene, talmente bene che hanno fatto presa e scalzato antichissime chiavi di lettura della realtà e del destino, altri, davvero, sfiorano il ridicolo, come appunto quello di Medusa.


E ancora con Cornelius siamo alle prese con Altdorfer, che meriterebbe molta più attenzione, ma dopo cinque ore vien voglia di fare una piccola pausa. Vorrei portarmi via i cieli rossi di Rubens, i ritratti dell'Infanta Clara Eugenia Di Spagna e di suo marito, l'Arciduca Alberto VII. Vorrei dedicare ore ai ritratti biografici di Lucas Cranach the Elder e di Hans Holbein the Younger. Andrò a bere un caffè ma ,prima, me ne sto un pò ferma a scrivere queste righe, buonina buonina perchè Cornelius è sdraiato, no,errore, accasciato ma in una posizione semi seduta, su uno dei divanetti della saletta.  Albrecht Cornelius che fa il suo sonnellino, a bocca aperta, quasi con un rigo di bavetta che gli esce di lato: tutti lo guardano ed io, piuttosto imbarazzata, me ne sto a capo chino sui miei appunti, facendo finta di non conoscerlo nemmeno. Addirittura mi sono spostata più in là.
Ma io posso passare la vita a governare il sonno degli altri? Quelli che hanno ritmi da neonati, quelli che ho sempre invidiato perchè appoggiano la testa, chiudono gli occhi e si addormentano, ovunque si sia, prima che io possa arrivare a contare fino a dieci. Quelli che si addormentano in qualsiasi posizione, pure quelle più scomode, e dormono, dormono, dormono, e quando li  svegli, non hanno nemmeno gli arti intorpiditi. Non sentono rumori molesti, non sono risvegliati di soprassalto da un annuncio dell'autoparlante di un aereoporto che emette un fischio terribile prima di gracchiare le sue parole, anzi, sono cullati dai vicini  che non smettono mai di parlare su una carrozza del treno,  anche alzando il tono ogni tanto per ridacchiare. Un viaggio notturno seduti sul sedile di un autobus, senza poter stendere le gambe, senza poter poggiare il capo che invece continua a sbatacchiare di qua e di là contro rigidi, moquettati e sporchini deterrenti poggia testa, senza potersi girare di lato- cosa che a me, sin da giovane, procurava dolori alle vertebre lombari- , ancor più disturbati da quel filo di aria gelida che prima o poi ti infreddolisce tutto il braccio che poggia verso il finestrino, anche quando hai messo di tutto per non avvertire quel fastidioso refe di freddo, eppure essi si svegliano al mattino, giunti a destinazione, come se avessero dormito otto ore comodamente nel letto di casa. Una dormita in una casa estranea, in una stanza estranea, su un materasso estraneo, con la luce non corretta nel modo giusto sono per me già cose che impediscono una buona dormita: a cui si potrebbero aggiungere rumori, sia improvvisi che cadenzati, provenienti dalla strada o dall'interno dell'abitazione e alcune variabili come troppe o troppo poche coperte e il cuscino, che solitamente è sottile e mi costringe o a iperestendere il capo o a piegare il guanciale a metà per renderlo più reggente, ma che così riduce anche il girarsi su un fianco o l'altro. Se sembro troppo lagnosa è evidente che siete tra i molti che dormono ovunque  e comunque e ne ricavano sollievo, riposo ed energie rinnovate. Io sopportavo i viaggi in Interrail solo perchè avevo intorno ai 20 anni, ma significava passare venti e più giorni senza dormire nè riposare il corpo quasi mai: ora sverrei, ma a 20 anni tiravo un vascello con una fune su e  giù per il Volga da mattino a sera, ero una giovane soldatessa. Negli anni conobbi termini come "bioritmo" e "cronotipo", che mi ricordano "mototopo" e "autogatto":

Ridotto più semplicemente in "allodole" e "civette", indica ovviamente la tendenza a far tardi la sera e svegliarsi lentamente e rimbambiti al mattino, o viceversa. L'origine del mio cronotipo, nonostante io sia nata alle 21:30, e quindi quasi destinata ad essere una civetta, e quindi della mia predisposizione ad esser vispa al mattino e tendente allo svogliato e sonnolento la sera, credo provenga da un recita alle elementari. Era una di quelle recite orrende a cui i genitori sono costretti ad assistere e i bambini a fare: non ne ho mai capito la ragione. Se è per scoprire talenti precoci sono convinta vi siano altri modi e poi un talento vero porta inevitabilmente verso una strada, gloriosa o ingloriosa che sia, come una calamita. Au contraire, se non si è talentuosi, quelle recite sono un'umiliazione per chi è costretto a partecipare e un'occasione per appurare se si è figli di genitori obiettivi o esaltati: perchè, all'ascolto di una bambina decisamente non portata per il canto, si potevano vedere  madri che stringevano le mani sul petto con gli occhi pieni di lacrime, orgogliose della figlioletta prodigio. Altrimenti, alla recitazione stentorea e inqualificabile del pargolo, qualche genitore si immergeva fino a scomparire nella poltrona bordeaux del teatrino scolastico, guardando con imbarazzo dal basso verso il palco, con le mani giunte in preghiera che il testo recitato fosse il più breve possibile. In quel sabato pomeriggio invernale della mia 2^ elementare, mi ritrovai vestita da allodoletta. Il testo della canzoncina, che ancora ricordo e che potrei cantare fino al mio ultimo giorno di vita, era: "Io son l'allodoletta che canta tutto il giorno, son qui venuta intorno per porgervi il buongiorno", e qui andiamo ben oltre il concetto di rima baciata. Quindi, da allora assimilai l'essere allodola, definita da Shakespeare "la messaggera dell'alba", passero magnifico celebrato in tutte le culture, dalla norrena all'indiana. Allodola in sanscrito si dice bharadvaja e significa colui che canta, poi c'è la splendida poesia di Shelley "To a skylark": sicché, mi ritrovai allodola, creatura mattiniera che, in gioventù, era ancora mutaforma e potevo trasformarmi in civetta a piacimento. Quel potere si assottigliò sempre più negli anni, per fisiologia e per biografia, fino a rendermi colei che porge il buongiorno. E' importante scegliere amicizie e amori che siano del tuo cronotipo, perchè si finisce facilmente col litigare se non si coincide: i dormiglioni poi!, sono tra gli esseri più presuntuosi che ci siano e mettono gli altri in servitù del loro dormire ostinatamente anche fino a mezzogiorno, costringendoti a spostare appuntamenti e arrivare ai loro orari con già un bel pò di cose fatte ed energie impiegate. Aveva ragione Jack Torrance. Il mattino ha l'oro in bocca.



Domenica al Palazzo Belvedere. Dovrebbero utilizzare le sculture di Franz Xavier Messerschmidt sulle copertine dei libri, così sarebbe più conosciuto: delle sue "teste di carattere" , che voleva fossero 100, ne scolpì 64 e invece a noi ne sono arrivate solo 49: rappresentano smorfie, lo studio che lo scultore compiva su se stesso mentre si dava dei pizzicotti qua e là, in preda allo "spirito della proporzione". Lo scopo dei pizzicotti era quello di "domare lo spirito della proporzione" che l'artista riteneva gli infliggesse dolori in varie parti del corpo: pochi e rari libri sono stati a lui dedicati. Usa marmi sporchi, colorati, macchiati, che in alcune parti paioni essersi sbriciolati e i volti presentano incrinature autonome. Mi viene in mente la pelle umana, quella degli anziani o quella di coloro che si sporcano il viso lavorando ( di terra, di colore, di carbone, di farina), le macchie della pelle, le cicatrici, le rughe. In  "Nati sotto Saturno" 🔗 Rudolf e Margot Wittkower "Nati Sotto Saturno. La figura dell'artista dall'antichità alla rivoluzione francese" 1963, ET Saggi, ed. Einuadi, 1968 🔗 , al capitolo 5 intitolato "Genio, pazzia e malinconia", troviamo al paragrafo 5: "Un pazzo problematico: Franz Xaver Messerschmidt". I coniugi Wittkover, di cui per anni si è conosciuto solo il marito, Rudolf Wittkower, scampati dalla Germania nazista a Londra, con Panofsky e Saxl, fu uno degli esponenti importanti del famoso Warbourg Institute di Londra, transitato poi alla Columbia University di New York: marito e moglie propongono uno studio sulla supposta follia nell'arte. Quello che sostengono è sì che Messerschmidt fosse pazzo, ma non esattamente per le ragioni che ci propone il suo più grande, e pressocchè unico, ad oggi, studioso, Ernst Kris, storico dell'arte e psicanalista praticante. Nel libro saturnino, dedicato alle bizzarrìe e alla follia degli artisti (robe che fanno apparire Lady Gaga o Warhol e Picasso  davvero con biografie banalissime, ne facevano di ogni nei secoli precedenti), emerge il fatto che le ragioni per cui il Messerschmidt era pazzo non sono quelle che espone lo studioso, ma forse altre. Le ragioni a suffragio della follia dello scultore proposte dal Kris sono sostanzialmente il fatto che egli credesse negli spiriti ( soprattutto nello spirito della proporzione, che lo tormentava la notte - a me echeggiano le parole di Giorgio Vasari scritte nel suo "Le vite dè più eccellenti pittori scultori e architettori" 1550-1568,  sulla follia che colse Paolo Uccello sulla meraviglia della prospettiva "Oh, dolce cosa è questa prospettiva!"...prospettiva e proporzione, che combinazione): " a meno di credere che per secoli ci siano stati al mondo un'infinità di squilibrati" perchè proprio nel Settecento, il secolo dei Lumi, vi fu la revivescenza di antichi culti e riti magici che portò all'occultismo dell'epoca vittoriana, il tutto condito dal pullulare di società segrete di ogni sorta. Quindi, questa prima prova della follia di Franz non regge. Un'altra prova è la sua castità, unita ad una vita alla soglia della povertà, poichè un suo ospite, Fiedrich Nicolai, scrittore erudito che andò a trovare l'artista nel 1781, descrive la sua piccola abitazione a Bratislava nel seguente modo: "l'intero arredo si compone di un letto, un flauto, una pipa, una brocca per l'acqua e un vecchio libro italiano sulle proporzioni del corpo umano. Oltre ciò aveva appeso vicino alla finestra, un mezzo foglio col disegno di una vecchia statua egiziana senza braccia, che egli guardava sempre con grande ammirazione reverenza" ( era probabilmente una raffigurazione di Ermete Trismegisto , il venerabile dio egizio grecizzato dalla sapienza esoterica, riscoperto dai filosofi del Rinascimento). Ma la castità, l'esercizio della continenza era considerata, da certe sette occulte, come un requisito imprescindibile per arrivare alla chiaroveggenza e alla conoscenza intrinseca delle cose, un indirizzare l'energia della Kundalini verso uno scopo che non fosse scopereccio o riproduttivo. Inoltre, oltre alla sua ossessione per gli "studi di carattere", continuava ad affiancare la sua produzione mainstream nello scolpire busti per committenti, cioè conti e duchi: ed è molto improbabile che costoro avrebbero affidato il proprio ritratto e il proprio denaro ad uno scultore notoriamente pazzo. Quindi, vi erano le opere ufficiali e le opere private: vero è che lo scultore perse la sua Cattedra di Scultura ben presto a Vienna, proprio grazie a due paroline poco gentili nel descriverlo che scrisse su di lui, nel 1774, il Primo Ministro, Conte Kaunitz, ma sappiamo bene come possono andare queste cose. Una parola detta male, un'insolenza, una rivalità, un'invidia e lui, figlio di una povera e umile famiglia artigiana della Germania meridionale, sicuramente non aveva santi in paradiso. Dicono soffrisse di manie di persecuzione, era scontroso, era un uomo che amava vivere da solo e non era un compagnone, affermava di vedere realmente gli spiriti: ma era incapace di far torto a chicchessia, ma i torti inflitti a lui lo ferivano profondamente. Matto o non matto che fosse, trovatemene uno di normale.

F.X. Messerschsmidt (1736-83)



Il guardiano dei morti va avanti e indietro per le sale e ogni volta che lo vedo avvicinarsi mi pare abbia perso un capello in più. Sorride, abbondando nella giacca. Almeno non è antipatico come la sua collega al piano di sotto. Effettivamente lui, nelle sale che sorveglia, vede rosee carni nude di dee ed eroine tutto il giorno, vede tante poppe con capezzoli che sembrano piccoli boccioli di rosa: e infatti è contento. Nella sala successiva un'altra sorpresa ancora: il custode è grassoccio e con il collo storto verso la spalla sinistra, gira il capo come i volatili. D'altronde questo palazzo si chiama il "Belvedere" ( o "Belsedere", come lo chiama Cornelius).
Di sala in sala, entriamo nella zona vip: Gustav Klimt la fa da padrone, una superstar più del "Napoleone Bonaparte al San Bernardo" di Jean Louis David ( forse perchè Napoleone ha fatto una brutta fine, mentre l'emozione di un bacio appassionato è eterna). La sala buia dove è esposto "Il bacio" mi ricorda l'ostensione della Sindone di Torino. Folla, tanta folla, la folla dei quadri famosi, quelli che, visti dal vivo, non ti ricordavi nemmeno più fossero dei dipinti. Per inciso, non so se nel tempo le cose siano migliorate, il vetro posto davanti alla tela è imbarazzante: riflessi, riflessi e ancora riflessi! Tra ammirazione ed emozione, davanti ai Secessionisti, provo più la prima: la seconda l'ho sentita nel petto per Bosch e Bruegel visti dal vivo, da restare senza fiato, o come quasi mi sono venute le lacrime agli occhi nel vedere al vivo un ritratto dipinto da Hans Holbein. Resto affascinata, tanto da acquistare nel Museum Shop una calamita da frigo, da un piccolo quadro eseguito da Wilheim Trubner "Caesar at the Rubicon", 1878. Vorrei non anticiparvi il soggetto del quadro, vorrei vi concentraste nell'immaginare uno scenario da quadro storicista, qualunque sia lo stile pittorico che prediligete, in cui c'è il caro Giulio Cesare che si appresta, il 14 gennaio del 49 CE ( Common Era, che amo rispetto ai vetusti e pretestuosi AC e DC, o BC Before Christ e AD Anno Domini) a varcare il fiume Rubicone, vicino alla malatestiana e felliniana Rimini,per iniziare la guerra civile con Pompeo, che origine fu dell'ascesa della famiglia Giulio Claudia, e ivi, secondo Svetonio, pronunziò la celebre frase Alea iacta est - Il dado è tratto.  Secondo Plutarco, il significato è "che Dio ce la mandi buona", o una roba del genere perchè al Cesare Giulio di Dio non gliene faceva un baffo. Il fiume Rubicone era un pomerium, cioè un confne sacro che separava Roma dal resto del mondo, o, per meglio dire, dell'allora mondo. In principio il pomerium era quella linea tracciata dai buoi da Romolo e Remo ( altri storici fratelli che finirono analogamente come Caino e Abele...ci sarà lo zampino della propaganda protocristiana anche in questa revisione storica?), che stabiliva i confini dell'Urbe: non se ne potevano varcare i confini senza aver deposto la scure dal fascio littorio. Insomma, non fu una decisione da prendere alla leggera, ma che implicava un dilemma storico bellico non da poco. E gli stessi pensierosi pensieri risiedono nello sguardo di questo Cesare, questo Czar, davanti al suo Rubicone.
Io non amo i quadri o le opere senza titolo poichè non capisco la ragione per cui non abbiano il titolo. Lo so, tautologico. Mi va bene  anche solo: "Madonna col bambino", o "Madonna del cardellino", o "Paesaggio dalle Alpi Svizzere". Un'opera senza titolo è come un libro senza titolo. E tutta la sofisticata e intellettualoide ostentatezza pseudo modernista che guarda dall'alto in basso chi non comprende la profondità del titolo "Senza titolo", mi irrita: Kandinsky, col suo acquerello "Senza titolo" del 1910 se lo potè permettere, e pochi altri artisti dopo di lui, perchè il loro "Senza titolo" si comprende ed è un gran titolo. Ma altri, soprattutto pretestuosi e inverosimili discendenti di quegli artisti straordinari, non si possono permettere questa scorciatoia per ingannare il pubblico del vuoto semantico delle loro opere, anche se molti si fanno menare in giro pel naso più che volentieri: più che un uso è un abuso, più che un abuso, una scaltrezza.
E appunto oscillando tra il vuoto del titolo, che spesso rappresenta il vuoto del valore artistico, sia concettuale che artigianale, trovo che questo quadretto, 48,5 cm. per 61,5 cm sia un piccolo capolavoro. Mi ricorda quei titoli di giornale più acuti, ironici ed intelligenti che rimandano e si riallacciano ad un altro pezzo di conoscenze e cultura e , sinteticamente, esprimono un concetto che altrimenti avrebbe richiesto molte parole, anche in eccesso. Ecco, ecco chi è Cesare ed ecco il suo Rubicone. Caesar era il cane del pittore: si tratta di un alano tedesco dal mantello blu (cani giunti in Europa probabilmente nel IV secolo al seguito dei barbari Alani ) , talora in modo non corretto chiamato anche danese o gran danese ( in inglese great dane, sì, proprio quello del film 4 bassotti per 1 danese (The Ugly Dachshund) , un film del 1966 diretto da Norman Tokar e prodotto da Walt Disney, basato su un romanzo del 1938 di Gladys Bronwyn Stern.), un molossoide. E' dotato di un'ottima capacità di apprendimento e intelligenza, fortunatamente ora che è stata vietata in Italia la conchetomia lo si può apprezzare in tutta la sua bellezza: ma il povero Caesar invece era stato conchetomizzzato ( ma allora le ragioni erano non estetiche ma, diciamo così, pratiche) ma la sua natura mite e di ottimo cane da compagnia vengono celebrate in ben 3 dipinti che possiamo ammirare. 


"The ugly Dachshund", l'alano fulvo che si crede un bassotto

Quello che vediamo al Belvedere di Vienna non è il primo ritratto di Caesar poichè in realtà il primo è del 1877 ( vedi sotto): diciamo che questo è il prequel della saga dei salsicciotti. Ci sono questi 4 salsicciotti dentro un piatto di metallo. La tovaglia è già stata tirata verso l'orlo del tavolo dal muso del cane, che, chiaramente stava cercando di avvicinarsi il pasto: con il naso già sta olfattivamente pregustando i salcciotti quand'ecco che qualcuno entra in cucina e viene beccato in pieno! E qui il pittore rende del suo cane un'espressione  di una creatura a cui inequivocabilmente stanno passando nella testa alcuni pensieri, ognuno dei quali si riferisce ad una decisione da prendere, con collegate conseguenze. E' proprio il suo Rubicone! Far finta di nulla e battere in ritirata? O giocarsi la carta dell' innocente: in realtà, fosse stato per lui, sarebbe stato lì col muso appoggiato, in attesa che qualcuno gli avesse gentilmente elargito un salsicciotto: non si sarebbe mai azzardato a rubarli dal piatto mentre nessuno lo stava vedendo, perbacco! Oppure sta pensando che, se resta immobile e usa il suo potere dell'invisibilità, chi è entrato in cucina non possa vederlo, presto ne uscirà e così lui potrà portare a termine il misfatto? O ancora, avendo l'occhio sinistro sui salsicciotti e l'occhio destro fisso sullo scocciatore, sta cercando di capire se e quale sarà la punizione per addentare i suddetti e papparseli voracemente in un sol boccone? Perchè se le conseguenze fossero una semplice sgridata o una sculacciata, bhè, il gioco vale la candela: altrimenti, se scorgesse negli occhi di chi lo ha sorpreso una severità che prelude a punizioni più gravi, bhè, sarebbe il caso di battere in ritirata, un come non detto. Quanto vi è dell'essere umano e del suo agire in questo apparentemente scherzoso quadretto domestico? E il titolo non è una banalità come "Rubare o non rubare" o "Male agere segreto  et facere bene in publicum" o "Audaces fortuna juvat", ma un riferimento ad un episodio storico ben preciso: e mi viene da ridere a pensare a Giulio Cesare che è vicino a Caesar sulle rive del Rubicone e che se la stanno contando sul da farsi con vicino il piatto di salsicciotti. Come andrà a finire? Il quadro deve aver avuto successo, un pò come "Il peccato" di Franz Von Stuck, e deve esser stato riprodotto non solo due volte ( la versione di Berlino e quella di Vienna) ma, suppongo io, ce ne siano e ce ne siano state altri di Caesar e di Die Sunde, magari andati persi e/o distrutti durante le due Guerre Mondiali, oppure chiusi da qualche parte in magazzini, o che abbelliscono a tutt'oggi le case di qualche collezionista . Nella versione berlinese del 1880 solo la tovaglia resta dipinta come in quello del 1878: migliora la qualità pittorica del piatto, i salsicciotti sono sempre quattro ma posti in modo diverso. Caesar però ha il muso più girato verso sinistra, lo sguardo dell'occhio sinistro è molto ombreggiato e invece l'occhio destro, che nel quadro precedente era l'occhio che tutto vede di passato, presente e futuro, l'occhio di Horus, è divenatto l'occhio di un cane burlone un pò spavaldo ma anche simpaticamente spaccone. Come finiranno queste storie? Giulio cesare attraverserà il Rubicone e Caesar si accaparrerà le sue salsiccie?

Caesar am Rubicon - Digital Remastered Edition Painting by Wilhelm Trubner
W. Trubner "Caesar at the Rubicon",1878, Belvedere, Vienna



W. Trubner "Caesar at the Rubicon", 1880, Alte Pinakotek, Staatliche Museen ,Berlin

Come detto precedentemente, i quadri di Vienna e di Berlino erano il prequel del quadro che suscitò tanta simpatia che aveva come protagonista il cucciolone di Trubner: dipinto del 1877, della Germania di Otto von Bismark. L'insaccato non è quello delle opere successive, forse bratwurst, assomiglia di più a quelli che sono i veri Wiener Würstchen: e i morituri sono proprio loro, appesi al muso di Caesar che, con nobiltà e fierezza, accetta l'omaggio di coloro che stanno per essere ingoiati ( che, comunque, fosse suino o vitello, eran già morti). Qui  il titolo non  è azzeccato come l'altro e ha solo l' effetto umoristico, sia perchè chi era vivo è ben già mancato se è diventato un salsicciotto; e anche  perchè la celebre frase ,che tutti diamo per scontato venisse proferita dai gladiatori, al loro presentarsi nell'arena di fronte ai Cesari, non è menzionata che da Svetonio in "De vitae Caesarum", quindi non ha assolutamente attestazioni storiche ma quest'unica attestazione letteraria.  Svetonio la riporta nel V libro:  l'invocazione sarebbe stata rivolta all'imperatore Claudio da condannati a morte che si preparavano a prendere parte ad una naumachia, non da gladiatori che si apprestavano a combattere... ma Cinecittà e pure  Hollywood, con la sua fascinazione per "The History of the Decline and Fall of the Roman Empire" , 1776-1789, di Edward Gibbon, citato da Fonzie in "Happy days", ci ha tramandato l'immagine di omaccioni che si rivolgono all'imperatore con questa frase, in un saluto romano MAI esistito pure quello! Ma il quadri di Caesar coi salsicciotti ormai sono simpatici, negli anni sono diventati popolari, a tal punto che i Musei Statali di Berlino hanno usato quest' immagine  per l' abbonamento annuale.

W. Trubner "Ave, Caesar, morituri te salutant", 1877, Alte Pinakotek, Staatliche Museen, Berlin


Dopo tre giorni torniamo da Demel: la cameriera ci riconosce, si avvicina al tavolo e tira fuori dalla tasca della sua uniforme scura la matita di Cornelius, che tornerà quindi a casa.

martedì 1 marzo 2022

Ci sono, da qualche parte, delle cose belle

  

CI SONO,DA QUALCHE PARTE, DELLE COSE BELLE
 
 
Il tema di Over the Rainbow presenta una spiccatissima somiglianza sia armonica che melodica con il tema dell'intermezzo (noto come Sogno di Ratcliff) dell'opera Guglielmo Ratcliff di Pietro Mascagni, composto nel 1895. 



 
"Somewhere over the rainbow way up high
are the dreams that you dream of once in a lullaby.
Somewhere over the Rainbow bluebirds fly
and the dreams that you dream of dreams really do come true.
Someday I wish upon a star and wake up where the clouds are far behind me,
where troubles melts like lemon drops
high above the chimney top that's where you'll find me.
Somewhere over the Rainbow bluebirds fly 
and the dreams that you dare to Oh why, oh why can't I?"



"Da qualche parte oltre l'arcobaleno, in alto alto, ci sono i sogni che hai sognato tanto tanto tempo fa mentre ti cantavano la ninna nanna.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno volano piccoli uccellini blu e i sogni che tu fai sui sogni che sogni , diventano davvero realtà.
Un bel giorno mi affiderò ad una stella, mi sveglierò dove le nubi saranno lontane alle mie spalle, dove le preoccupazioni si scioglieranno come gocce di limone e mi si potrà trovare sulle cime dei camini.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno volano piccoli uccellini blu e quei sogni che quasi non si osano sognare...oh perchè, perchè non sognarli?"




Bimbetta fastidiosa Dorothy Gale, almeno così apparse ai miei occhi da bambina: pure petulante,  ma questo forse è l'effetto di quelle vocette sterotipate dei doppiatori italiani, in questo caso la vocetta della bambinetta dispettosa e vezzosa, la medesima che che trovavo odiosa anche quando doppiavano  Shirley Temple.
Perchè queste signorine in miniatura, queste bambole viventi con le loro vocette irritanti, avrebbero dovuto suscitare nelle bambine un processo immedesimativo?
Perchè queste damerine dovrebbero essere il prototipo della bimba perfetta a cui dovrei aspirare? Le mamme sospiravano davanti allo schermo e pronunciavano frasi al gusto di quel veleno materno, sottile ma inesorabile, tipo: "Ah, che delizia questa bimbetta" ( sottotitoli: così diversa da te!).





Questa iconografia dell'infanzia non si è mai estinta, anzi, si è riprodotta in maniera smisurata e si è  centuplicata con l'uso delle fotocamere dei cellulari. Non comprendo assolutamente la ragione per cui si possa pensare di mettere nel tondino di WhatsApp la foto del proprio figlio e non mi capacito della scelta della foto medesima: credo che, per i genitori, il pargolo o la deliziosa bimbetta siano venuti particolarmente bene, abbiano un musino davvero da simpaticissima birbetta furbetta. E in un battibaleno ti trovi costretto ad allargare gli occhi, sorridere al genitore, poi riguardare la foto dell'erede e, con espressione estatica, esclamare: "Ma è una delizia!", oppure, "Ma è bellissimaaaa!!!", oppure "Ma come si vede che è una furbetta!", oppure, "Qui ha un'espressione incredibile davvero!", oppure, "Ma che gran figo diventerà se è già così bello da piccolo?", oppure," Così carina quando cresce avrà un sacco di ammiratori!" e scemenze varie.
La cadenza ed il tono della vocetta di queste bimbe prodigio ha sempre esasperato la mia irritazione, già stabilitasi ad un livello elevato per le facce buffe che facevano ridere o intenerire gli adulti: io, bambina, trovavo preoccupante dover eventualmente ricalcare quelle smorfie per ottenere approvazione o simpatia. Ma l'ho fatto, mio malgrado, mi sono spesso conformata a quel facile meccanismo di azione-reazione per cui, se alla mamma ricordavo Shirley Temple, si inteneriva mi comprava il gelato.
La voce italiana sia di Judy Garland che di Shirley Temple è della piemontese Miranda Bonansea, classe 1926, figlia del fotografo della Real Casa Savoia, trasferitasi a Roma dallo zio, tal Guido Garavaglia, amministratore di compagnie teatrali: attrice bambina ma soprattutto doppiatrice, ho sentito la sua voce anche per Marylin Monroe, Grace Kelly in "Mezzogiorno di fuoco", talmente tante volte che la sua voce è familiarissima. Per dieci anni è stata sposata col cantante Claudio Villa, per la precisione dal 1952 al 1962. Binario triste e solitario, di cui scriveva bene PPP, ma che a me personalmente non è mai piaciuto.
 


martedì 15 febbraio 2022

 






 

Ormai ho la sensazione, anzi, quasi la certezza, che il gruppo di cornacchie che si erano stanziate proprio vicino a casa mia si siano spostate. Da almeno una settimana non ne vedevo un esemplare e non ne udivo i richiami. Perchè?, mi chiedevo. Appena lo scorso anno una coppia aveva nidificato su Numero Uno ( il mio albero preferito dei sette tigli che fanno la guardia alle mie finestre) e avevo osservato il lungo e meticoloso lavoro con cui avevano costruito il loro nido: vivendo in città era stato per me stupefacente come avessero meticolosamente trovato e scelto, giorno dopo giorno, i rami giusti per creare quell'incastro che avrebbe accolto prima le uova e poi i piccoli. Nei quasi quattro anni trascorsi con loro sono certa che mi conoscessero e, leggendo il libro di Bernd Heinrich "La mente del corvo" ( https://en.wikipedia.org/wiki/Bernd_Heinrich ) , ero come esaltata di poter vedere questi animali intelligenti ogni giorno.

In particolare ricordo la mia cornacchia preferita, una giovane e spavalda signorina che amava se promener il pomeriggio, intorno alle 16:30. Compiva sempre il medesimo percorso: atterrava sul lato sud del giardinetto pubblico antistante la mia casa e sostava per qualche minuto tra le due panchine poste a ridosso della via, antistanti la tabaccheria. Ad un certo punto, si avvicinava, cammiando goffamente, verso il marciapiede dove si trovano le strisce bianche per l'attraversamento pedonale...e attraversava la strada! Un pò camminando, un pò saltellando, ma con calma e tranquillità. Poi, giunta sul lato opposto, con un balzo si posizionava sul marciapiede, dava una curiosa occhiata dentro al bar dell'angolo e poi continuava la sua passeggiatina fino al portone del retro di un cortile a pochi metri di distanza dal bar. Poi si fermava. Se ne stava un pò lì, verso il ciglio del marciapiede, e guardava le persone passare: a quell'ora escono i bambini che frequentano le scuole primarie che tornano a casa con le loro madri. La mia amichetta guardava quel flusso di bimbi, di madri, di madri che si recavano a prendere il figlio maggiore magari portandosi il più piccolo sul passeggino, come se fosse incuriosita da quella quasi quotidiana processione: forse era incantata dai colori o, più probabilmente, non saprò mai perchè amava fare la solita passeggiatina, col suo solito percorso, alla solita ora. Un'altra che ben distinguevo invece stava di vedetta sopra la segnaletica verticale stradale all'incrocio tra due vie laterali: sopra due cartelli rotondi, uno di senso vietato e l'altro di obbligo di svolta a sinistra. In cima stava lei, nera sfumata, come se fosse su un trono, occhieggiando.

Non è questa la volta che disquisirò di cornacchie poichè si trovano informazioni abbondanti in rete e foto della loro vita in città. Ho letto che la loro presenza indica magia e ciò che mi spiace è che da una settimana non vedo più la loro magia, non sento le loro voci e mi mancano molto. Sono preoccupata per loro, vorrei solo sapere se hanno scelto di cambiare territorio o se, nei mille modi perversi in cui il genere umano è perverso, le hanno costrette ad allontanarsi o le hanno avvelenate. Ricordo che a gennaio ero contenta poichè vedevo una coppia che cominciava a ricostruire il nido nel punto preciso in cui lo vedevo lo scorso anno, proprio su in cima a Numero Uno. Poi non hanno proseguito, hanno abbandonato il progetto o, come sospettavo, forse avevano scelto un altro albero in un altro giardino pubblico.

Proprio mentre scrivo ho sentito il richiamo di una cornacchia: sono corsa sul balcone ma non l'ho vista. Però, il solo sentirne ancora il verso mi risolleva. Sono qui vicine, forse torneranno nel mio giardino.

Huginn e Muninn sono due corvi presenti associati al dio Odino. Huginn e Muninn viaggiano per il mondo portando notizie e informazioni al loro padrone. Odino li fa uscire all'alba per raccogliere informazioni e ritornano alla sera, siedono sulle spalle del dio e gli sussurrano le notizie nelle orecchie. Entrambi i nomi dei corvi derivano dal norreno, Huginn significa pensiero mentre Muninn memoria. Ma i corvi non sono le cornacchie. Ma li amo entrambi, così come amo i piccioni: semplicemente perchè volano, e io no.