Sono seduta con Cornelius al secondo piano della Pasticceria Demel, Kholmarkt 14, Vienna. Sta prendendo appunti visivi sul suo libretto per schizzi, con la matita che ha portato con sé da casa, quella che poggia sul tavolinetto di legno di fronte alla poltrona, in un continuo balletto dello spostare il torso verso il tavolo, afferrare la matita, riappoggiare la schiena sulla poltrona, sottolineare socchiudendo miopiamente gli occhi, per poi di nuovo sporgersi col torso verso il tavolinetto di legno e ritornare ad appoggiare la schiena alla poltrona. Può eseguire questo ondeggiare scattoso anche per tre volte nel giro di cinque minuti. Solo due ore dopo, giunti al KunstHistorisches Museum, si accorge di aver perso la matita o, forse, l'ha dimenticata proprio nella pasticceria di corte. Dedicando un sospiro maliconico alla matita viaggiatrice, che dal tavolinetto del salotto di casa si trova ora chissà dove a Vienna, si inizia l'immersione. Dopo la prima ora mi trovo a scivolare in sale piene zeppe di giganti di Rubens, l'ammiratore di Tiziano: una sala è tappezzata di suoi quadri fino al soffitto. Ci saranno più Rubens o più Renoir al mondo? Non ricordo di aver visitato un museo senza che non esponesse un Rubens o un Renoir, di quest'ultimo, anche solo un disegno o una tela piccola: inoltre, la sua caratteristica di di eccedere col blush sulle gote di bambine e ragazzuole, e la sua pittura sgraziata, si fanno riconoscere anche a metri di distanza. Puoi esclamare, raccapricciando per la nota stonata da lontano, "AH! ecco un altro Renoir!".
In questo museo il tempo si ferma: la sua accoglienza, accompagnata da comodissimi divani rivestiti di velluto color carta da zucchero presenti in ogni sala, è eccellente a tal punto che pare di esser seduti sul divano di casa e di aver la possibilità di guardare i quadri come se se ne fosse proprietari, i collezionisti. Nemmeno gli altri visitatori mi infastidiscono calpestando il parquet, attorniata da luci soffuse che illuminano i quadri e immersa in un biancore grigio perla di un piovoso pomeriggio autunnale che è un solenne invito a entrare e sprofondare ancora di più in questi capolavori. Alle 2:15 pm sono ancora nella sala dedicata ai Bruegel o Brueghel, comunque si preferisca scriverne il cognome. Gli spazi scenici accolgono quante più figure si possa immaginare: non si riescono a contare, spuntano come formiche da ogni dove. Quadri affollatissimi, ad alta densità di popolazione, mini kolossal con personaggi protagonisti in primo piano fino a comparse microscopiche della grandezza di moscerini sullo sfondo; e tutti con i loro dettagli, i loro accessori, il loro spazio vitale. Non è ancora sufficiente vederli dal vivo e a dispetto della miopia, credo serva ( come già pensai ieri davanti al Trittico di Bosch), dovendo mantenere una certa distanza di sicurezza dalle tele, un binocolo da teatro, osservati da uno spettatore come me, o semplicemente, una lente d'ingrandimento si avesse la possibilità di andarci molto vicino. Oso dire che incontrarli dal vivo è un'emozione analoga a quella che si prova nell'incontrare qualcuno che conosci da tempo tramite Webex, ti piace molto, e che hai l'occasione d'incontrare di persona .Ma i particolari si disperdono, se ne può apprezzare la raffinata alta definizione e precisione solo avendo molto tempo a disposizione e senza fretta. E ancora proseguo. Tutti, ovvio, assiepati davanti al celebre quadro di Vermeer "The art of painting", o "Allegoria della pittura" o "Pittore nel suo studio", del 1668: certo non è la ragazza con l'orecchino di perle, ma anche se aspetto con pazienza riesco a vederlo solo cosi:
Reincontro Cornelius davanti a Rembrandt. C'è una signora piuttosto infastidentemi perchè si è appropriata di un puff e guarda ammirata tre, dico 3!!!, autoritratti del mio amico van Rijn ( titolo che si è accaparrato per un lungo periodo di preparazione per sotenere un esame all'università dedicato esclusivamente a lui dal mio professore di storia dell'arte). Passo oltre e ,in un disimpegno, hanno posto un capolavoro:
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"Testa di Medusa" Pieter Paul Rubens, 1617-1618
Allegoria della vittoria della ragione stoica sui nemici della virtù. In realtà i rettili furono dipinti da Frans Snyders, specializzato in animali nella bottega del maestro, ma, soprattutto, gli venivano bene i rettili in particolare ( c'è un suo prezioso ritratto eseguito da Van Dyck, ora alla Pinacoteca di Kassel, in Germania). Chi volle in casa un quadro così? L'opera è documentata presso la Collezione Buckingam intorno al 1635-1648, poi dal 1685 è a Praga e poi, nel 1880, l'opera giunse a Vienna. Sulla verità della Medusa, rimando all'intervento nel link qui sotto riportato, perchè alcuni miti e alcune simbologie sono state rimodellate bene, talmente bene che hanno fatto presa e scalzato antichissime chiavi di lettura della realtà e del destino, altri, davvero, sfiorano il ridicolo, come appunto quello di Medusa.
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E ancora con Cornelius siamo alle prese con Altdorfer, che meriterebbe molta più attenzione, ma dopo cinque ore vien voglia di fare una piccola pausa. Vorrei portarmi via i cieli rossi di Rubens, i ritratti dell'Infanta Clara Eugenia Di Spagna e di suo marito, l'Arciduca Alberto VII. Vorrei dedicare ore ai ritratti biografici di Lucas Cranach the Elder e di Hans Holbein the Younger. Andrò a bere un caffè ma ,prima, me ne sto un pò ferma a scrivere queste righe, buonina buonina perchè Cornelius è sdraiato, no,errore, accasciato ma in una posizione semi seduta, su uno dei divanetti della saletta. Albrecht Cornelius che fa il suo sonnellino, a bocca aperta, quasi con un rigo di bavetta che gli esce di lato: tutti lo guardano ed io, piuttosto imbarazzata, me ne sto a capo chino sui miei appunti, facendo finta di non conoscerlo nemmeno. Addirittura mi sono spostata più in là.
Ma io posso passare la vita a governare il sonno degli altri? Quelli che hanno ritmi da neonati, quelli che ho sempre invidiato perchè appoggiano la testa, chiudono gli occhi e si addormentano, ovunque si sia, prima che io possa arrivare a contare fino a dieci. Quelli che si addormentano in qualsiasi posizione, pure quelle più scomode, e dormono, dormono, dormono, e quando li svegli, non hanno nemmeno gli arti intorpiditi. Non sentono rumori molesti, non sono risvegliati di soprassalto da un annuncio dell'autoparlante di un aereoporto che emette un fischio terribile prima di gracchiare le sue parole, anzi, sono cullati dai vicini che non smettono mai di parlare su una carrozza del treno, anche alzando il tono ogni tanto per ridacchiare. Un viaggio notturno seduti sul sedile di un autobus, senza poter stendere le gambe, senza poter poggiare il capo che invece continua a sbatacchiare di qua e di là contro rigidi, moquettati e sporchini deterrenti poggia testa, senza potersi girare di lato- cosa che a me, sin da giovane, procurava dolori alle vertebre lombari- , ancor più disturbati da quel filo di aria gelida che prima o poi ti infreddolisce tutto il braccio che poggia verso il finestrino, anche quando hai messo di tutto per non avvertire quel fastidioso refe di freddo, eppure essi si svegliano al mattino, giunti a destinazione, come se avessero dormito otto ore comodamente nel letto di casa. Una dormita in una casa estranea, in una stanza estranea, su un materasso estraneo, con la luce non corretta nel modo giusto sono per me già cose che impediscono una buona dormita: a cui si potrebbero aggiungere rumori, sia improvvisi che cadenzati, provenienti dalla strada o dall'interno dell'abitazione e alcune variabili come troppe o troppo poche coperte e il cuscino, che solitamente è sottile e mi costringe o a iperestendere il capo o a piegare il guanciale a metà per renderlo più reggente, ma che così riduce anche il girarsi su un fianco o l'altro. Se sembro troppo lagnosa è evidente che siete tra i molti che dormono ovunque e comunque e ne ricavano sollievo, riposo ed energie rinnovate. Io sopportavo i viaggi in Interrail solo perchè avevo intorno ai 20 anni, ma significava passare venti e più giorni senza dormire nè riposare il corpo quasi mai: ora sverrei, ma a 20 anni tiravo un vascello con una fune su e giù per il Volga da mattino a sera, ero una giovane soldatessa. Negli anni conobbi termini come "bioritmo" e "cronotipo", che mi ricordano "mototopo" e "autogatto":
Ridotto più semplicemente in "allodole" e "civette", indica ovviamente la tendenza a far tardi la sera e svegliarsi lentamente e rimbambiti al mattino, o viceversa. L'origine del mio cronotipo, nonostante io sia nata alle 21:30, e quindi quasi destinata ad essere una civetta, e quindi della mia predisposizione ad esser vispa al mattino e tendente allo svogliato e sonnolento la sera, credo provenga da un recita alle elementari. Era una di quelle recite orrende a cui i genitori sono costretti ad assistere e i bambini a fare: non ne ho mai capito la ragione. Se è per scoprire talenti precoci sono convinta vi siano altri modi e poi un talento vero porta inevitabilmente verso una strada, gloriosa o ingloriosa che sia, come una calamita. Au contraire, se non si è talentuosi, quelle recite sono un'umiliazione per chi è costretto a partecipare e un'occasione per appurare se si è figli di genitori obiettivi o esaltati: perchè, all'ascolto di una bambina decisamente non portata per il canto, si potevano vedere madri che stringevano le mani sul petto con gli occhi pieni di lacrime, orgogliose della figlioletta prodigio. Altrimenti, alla recitazione stentorea e inqualificabile del pargolo, qualche genitore si immergeva fino a scomparire nella poltrona bordeaux del teatrino scolastico, guardando con imbarazzo dal basso verso il palco, con le mani giunte in preghiera che il testo recitato fosse il più breve possibile. In quel sabato pomeriggio invernale della mia 2^ elementare, mi ritrovai vestita da allodoletta. Il testo della canzoncina, che ancora ricordo e che potrei cantare fino al mio ultimo giorno di vita, era: "Io son l'allodoletta che canta tutto il giorno, son qui venuta intorno per porgervi il buongiorno", e qui andiamo ben oltre il concetto di rima baciata. Quindi, da allora assimilai l'essere allodola, definita da Shakespeare "la messaggera dell'alba", passero magnifico celebrato in tutte le culture, dalla norrena all'indiana. Allodola in sanscrito si dice bharadvaja e significa colui che canta, poi c'è la splendida poesia di Shelley "To a skylark": sicché, mi ritrovai allodola, creatura mattiniera che, in gioventù, era ancora mutaforma e potevo trasformarmi in civetta a piacimento. Quel potere si assottigliò sempre più negli anni, per fisiologia e per biografia, fino a rendermi colei che porge il buongiorno. E' importante scegliere amicizie e amori che siano del tuo cronotipo, perchè si finisce facilmente col litigare se non si coincide: i dormiglioni poi!, sono tra gli esseri più presuntuosi che ci siano e mettono gli altri in servitù del loro dormire ostinatamente anche fino a mezzogiorno, costringendoti a spostare appuntamenti e arrivare ai loro orari con già un bel pò di cose fatte ed energie impiegate. Aveva ragione Jack Torrance. Il mattino ha l'oro in bocca.
Domenica al Palazzo Belvedere. Dovrebbero utilizzare le sculture di Franz Xavier Messerschmidt sulle copertine dei libri, così sarebbe più conosciuto: delle sue "teste di carattere" , che voleva fossero 100, ne scolpì 64 e invece a noi ne sono arrivate solo 49: rappresentano smorfie, lo studio che lo scultore compiva su se stesso mentre si dava dei pizzicotti qua e là, in preda allo "spirito della proporzione". Lo scopo dei pizzicotti era quello di "domare lo spirito della proporzione" che l'artista riteneva gli infliggesse dolori in varie parti del corpo: pochi e rari libri sono stati a lui dedicati. Usa marmi sporchi, colorati, macchiati, che in alcune parti paioni essersi sbriciolati e i volti presentano incrinature autonome. Mi viene in mente la pelle umana, quella degli anziani o quella di coloro che si sporcano il viso lavorando ( di terra, di colore, di carbone, di farina), le macchie della pelle, le cicatrici, le rughe. In "Nati sotto Saturno" 🔗 Rudolf e Margot Wittkower "Nati Sotto Saturno. La figura dell'artista dall'antichità alla rivoluzione francese" 1963, ET Saggi, ed. Einuadi, 1968 🔗 , al capitolo 5 intitolato "Genio, pazzia e malinconia", troviamo al paragrafo 5: "Un pazzo problematico: Franz Xaver Messerschmidt". I coniugi Wittkover, di cui per anni si è conosciuto solo il marito, Rudolf Wittkower, scampati dalla Germania nazista a Londra, con Panofsky e Saxl, fu uno degli esponenti importanti del famoso Warbourg Institute di Londra, transitato poi alla Columbia University di New York: marito e moglie propongono uno studio sulla supposta follia nell'arte. Quello che sostengono è sì che Messerschmidt fosse pazzo, ma non esattamente per le ragioni che ci propone il suo più grande, e pressocchè unico, ad oggi, studioso, Ernst Kris, storico dell'arte e psicanalista praticante. Nel libro saturnino, dedicato alle bizzarrìe e alla follia degli artisti (robe che fanno apparire Lady Gaga o Warhol e Picasso davvero con biografie banalissime, ne facevano di ogni nei secoli precedenti), emerge il fatto che le ragioni per cui il Messerschmidt era pazzo non sono quelle che espone lo studioso, ma forse altre. Le ragioni a suffragio della follia dello scultore proposte dal Kris sono sostanzialmente il fatto che egli credesse negli spiriti ( soprattutto nello spirito della proporzione, che lo tormentava la notte - a me echeggiano le parole di Giorgio Vasari scritte nel suo "Le vite dè più eccellenti pittori scultori e architettori" 1550-1568, sulla follia che colse Paolo Uccello sulla meraviglia della prospettiva "Oh, dolce cosa è questa prospettiva!"...prospettiva e proporzione, che combinazione): " a meno di credere che per secoli ci siano stati al mondo un'infinità di squilibrati" perchè proprio nel Settecento, il secolo dei Lumi, vi fu la revivescenza di antichi culti e riti magici che portò all'occultismo dell'epoca vittoriana, il tutto condito dal pullulare di società segrete di ogni sorta. Quindi, questa prima prova della follia di Franz non regge. Un'altra prova è la sua castità, unita ad una vita alla soglia della povertà, poichè un suo ospite, Fiedrich Nicolai, scrittore erudito che andò a trovare l'artista nel 1781, descrive la sua piccola abitazione a Bratislava nel seguente modo: "l'intero arredo si compone di un letto, un flauto, una pipa, una brocca per l'acqua e un vecchio libro italiano sulle proporzioni del corpo umano. Oltre ciò aveva appeso vicino alla finestra, un mezzo foglio col disegno di una vecchia statua egiziana senza braccia, che egli guardava sempre con grande ammirazione reverenza" ( era probabilmente una raffigurazione di Ermete Trismegisto , il venerabile dio egizio grecizzato dalla sapienza esoterica, riscoperto dai filosofi del Rinascimento). Ma la castità, l'esercizio della continenza era considerata, da certe sette occulte, come un requisito imprescindibile per arrivare alla chiaroveggenza e alla conoscenza intrinseca delle cose, un indirizzare l'energia della Kundalini verso uno scopo che non fosse scopereccio o riproduttivo. Inoltre, oltre alla sua ossessione per gli "studi di carattere", continuava ad affiancare la sua produzione mainstream nello scolpire busti per committenti, cioè conti e duchi: ed è molto improbabile che costoro avrebbero affidato il proprio ritratto e il proprio denaro ad uno scultore notoriamente pazzo. Quindi, vi erano le opere ufficiali e le opere private: vero è che lo scultore perse la sua Cattedra di Scultura ben presto a Vienna, proprio grazie a due paroline poco gentili nel descriverlo che scrisse su di lui, nel 1774, il Primo Ministro, Conte Kaunitz, ma sappiamo bene come possono andare queste cose. Una parola detta male, un'insolenza, una rivalità, un'invidia e lui, figlio di una povera e umile famiglia artigiana della Germania meridionale, sicuramente non aveva santi in paradiso. Dicono soffrisse di manie di persecuzione, era scontroso, era un uomo che amava vivere da solo e non era un compagnone, affermava di vedere realmente gli spiriti: ma era incapace di far torto a chicchessia, ma i torti inflitti a lui lo ferivano profondamente. Matto o non matto che fosse, trovatemene uno di normale.
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F.X. Messerschsmidt (1736-83)
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Il guardiano dei morti va avanti e indietro per le sale e ogni volta che lo vedo avvicinarsi mi pare abbia perso un capello in più. Sorride, abbondando nella giacca. Almeno non è antipatico come la sua collega al piano di sotto. Effettivamente lui, nelle sale che sorveglia, vede rosee carni nude di dee ed eroine tutto il giorno, vede tante poppe con capezzoli che sembrano piccoli boccioli di rosa: e infatti è contento. Nella sala successiva un'altra sorpresa ancora: il custode è grassoccio e con il collo storto verso la spalla sinistra, gira il capo come i volatili. D'altronde questo palazzo si chiama il "Belvedere" ( o "Belsedere", come lo chiama Cornelius).
Di sala in sala, entriamo nella zona vip: Gustav Klimt la fa da padrone, una superstar più del "Napoleone Bonaparte al San Bernardo" di Jean Louis David ( forse perchè Napoleone ha fatto una brutta fine, mentre l'emozione di un bacio appassionato è eterna). La sala buia dove è esposto "Il bacio" mi ricorda l'ostensione della Sindone di Torino. Folla, tanta folla, la folla dei quadri famosi, quelli che, visti dal vivo, non ti ricordavi nemmeno più fossero dei dipinti. Per inciso, non so se nel tempo le cose siano migliorate, il vetro posto davanti alla tela è imbarazzante: riflessi, riflessi e ancora riflessi! Tra ammirazione ed emozione, davanti ai Secessionisti, provo più la prima: la seconda l'ho sentita nel petto per Bosch e Bruegel visti dal vivo, da restare senza fiato, o come quasi mi sono venute le lacrime agli occhi nel vedere al vivo un ritratto dipinto da Hans Holbein. Resto affascinata, tanto da acquistare nel Museum Shop una calamita da frigo, da un piccolo quadro eseguito da Wilheim Trubner "Caesar at the Rubicon", 1878. Vorrei non anticiparvi il soggetto del quadro, vorrei vi concentraste nell'immaginare uno scenario da quadro storicista, qualunque sia lo stile pittorico che prediligete, in cui c'è il caro Giulio Cesare che si appresta, il 14 gennaio del 49 CE ( Common Era, che amo rispetto ai vetusti e pretestuosi AC e DC, o BC Before Christ e AD Anno Domini) a varcare il fiume Rubicone, vicino alla malatestiana e felliniana Rimini,per iniziare la guerra civile con Pompeo, che origine fu dell'ascesa della famiglia Giulio Claudia, e ivi, secondo Svetonio, pronunziò la celebre frase Alea iacta est - Il dado è tratto. Secondo Plutarco, il significato è "che Dio ce la mandi buona", o una roba del genere perchè al Cesare Giulio di Dio non gliene faceva un baffo. Il fiume Rubicone era un pomerium, cioè un confne sacro che separava Roma dal resto del mondo, o, per meglio dire, dell'allora mondo. In principio il pomerium era quella linea tracciata dai buoi da Romolo e Remo ( altri storici fratelli che finirono analogamente come Caino e Abele...ci sarà lo zampino della propaganda protocristiana anche in questa revisione storica?), che stabiliva i confini dell'Urbe: non se ne potevano varcare i confini senza aver deposto la scure dal fascio littorio. Insomma, non fu una decisione da prendere alla leggera, ma che implicava un dilemma storico bellico non da poco. E gli stessi pensierosi pensieri risiedono nello sguardo di questo Cesare, questo Czar, davanti al suo Rubicone.
Io non amo i quadri o le opere senza titolo poichè non capisco la ragione per cui non abbiano il titolo. Lo so, tautologico. Mi va bene anche solo: "Madonna col bambino", o "Madonna del cardellino", o "Paesaggio dalle Alpi Svizzere". Un'opera senza titolo è come un libro senza titolo. E tutta la sofisticata e intellettualoide ostentatezza pseudo modernista che guarda dall'alto in basso chi non comprende la profondità del titolo "Senza titolo", mi irrita: Kandinsky, col suo acquerello "Senza titolo" del 1910 se lo potè permettere, e pochi altri artisti dopo di lui, perchè il loro "Senza titolo" si comprende ed è un gran titolo. Ma altri, soprattutto pretestuosi e inverosimili discendenti di quegli artisti straordinari, non si possono permettere questa scorciatoia per ingannare il pubblico del vuoto semantico delle loro opere, anche se molti si fanno menare in giro pel naso più che volentieri: più che un uso è un abuso, più che un abuso, una scaltrezza.
E appunto oscillando tra il vuoto del titolo, che spesso rappresenta il vuoto del valore artistico, sia concettuale che artigianale, trovo che questo quadretto, 48,5 cm. per 61,5 cm sia un piccolo capolavoro. Mi ricorda quei titoli di giornale più acuti, ironici ed intelligenti che rimandano e si riallacciano ad un altro pezzo di conoscenze e cultura e , sinteticamente, esprimono un concetto che altrimenti avrebbe richiesto molte parole, anche in eccesso. Ecco, ecco chi è Cesare ed ecco il suo Rubicone.
Caesar era il cane del pittore: si tratta di un alano tedesco dal mantello blu (cani giunti in Europa probabilmente nel IV secolo al seguito dei barbari Alani ) , talora in modo non corretto chiamato anche danese o gran danese ( in inglese great dane, sì, proprio quello del film 4 bassotti per 1 danese (The Ugly Dachshund) , un film del 1966 diretto da Norman Tokar e prodotto da Walt Disney, basato su un romanzo del 1938 di Gladys Bronwyn Stern.), un molossoide. E' dotato di un'ottima capacità di apprendimento e intelligenza, fortunatamente ora che è stata vietata in Italia la conchetomia lo si può apprezzare in tutta la sua bellezza: ma il povero Caesar invece era stato conchetomizzzato ( ma allora le ragioni erano non estetiche ma, diciamo così, pratiche) ma la sua natura mite e di ottimo cane da compagnia vengono celebrate in ben 3 dipinti che possiamo ammirare.
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"The ugly Dachshund", l'alano fulvo che si crede un bassotto |
Quello che vediamo al Belvedere di Vienna non è il primo ritratto di Caesar poichè in realtà il primo è del 1877 ( vedi sotto): diciamo che questo è il prequel della saga dei salsicciotti. Ci sono questi 4 salsicciotti dentro un piatto di metallo. La tovaglia è già stata tirata verso l'orlo del tavolo dal muso del cane, che, chiaramente stava cercando di avvicinarsi il pasto: con il naso già sta olfattivamente pregustando i salcciotti quand'ecco che qualcuno entra in cucina e viene beccato in pieno! E qui il pittore rende del suo cane un'espressione di una creatura a cui inequivocabilmente stanno passando nella testa alcuni pensieri, ognuno dei quali si riferisce ad una decisione da prendere, con collegate conseguenze. E' proprio il suo Rubicone! Far finta di nulla e battere in ritirata? O giocarsi la carta dell' innocente: in realtà, fosse stato per lui, sarebbe stato lì col muso appoggiato, in attesa che qualcuno gli avesse gentilmente elargito un salsicciotto: non si sarebbe mai azzardato a rubarli dal piatto mentre nessuno lo stava vedendo, perbacco! Oppure sta pensando che, se resta immobile e usa il suo potere dell'invisibilità, chi è entrato in cucina non possa vederlo, presto ne uscirà e così lui potrà portare a termine il misfatto? O ancora, avendo l'occhio sinistro sui salsicciotti e l'occhio destro fisso sullo scocciatore, sta cercando di capire se e quale sarà la punizione per addentare i suddetti e papparseli voracemente in un sol boccone? Perchè se le conseguenze fossero una semplice sgridata o una sculacciata, bhè, il gioco vale la candela: altrimenti, se scorgesse negli occhi di chi lo ha sorpreso una severità che prelude a punizioni più gravi, bhè, sarebbe il caso di battere in ritirata, un come non detto. Quanto vi è dell'essere umano e del suo agire in questo apparentemente scherzoso quadretto domestico? E il titolo non è una banalità come "Rubare o non rubare" o "Male agere segreto et facere bene in publicum" o "Audaces fortuna juvat", ma un riferimento ad un episodio storico ben preciso: e mi viene da ridere a pensare a Giulio Cesare che è vicino a Caesar sulle rive del Rubicone e che se la stanno contando sul da farsi con vicino il piatto di salsicciotti. Come andrà a finire? Il quadro deve aver avuto successo, un pò come "Il peccato" di Franz Von Stuck, e deve esser stato riprodotto non solo due volte ( la versione di Berlino e quella di Vienna) ma, suppongo io, ce ne siano e ce ne siano state altri di Caesar e di Die Sunde, magari andati persi e/o distrutti durante le due Guerre Mondiali, oppure chiusi da qualche parte in magazzini, o che abbelliscono a tutt'oggi le case di qualche collezionista . Nella versione berlinese del 1880 solo la tovaglia resta dipinta come in quello del 1878: migliora la qualità pittorica del piatto, i salsicciotti sono sempre quattro ma posti in modo diverso. Caesar però ha il muso più girato verso sinistra, lo sguardo dell'occhio sinistro è molto ombreggiato e invece l'occhio destro, che nel quadro precedente era l'occhio che tutto vede di passato, presente e futuro, l'occhio di Horus, è divenatto l'occhio di un cane burlone un pò spavaldo ma anche simpaticamente spaccone. Come finiranno queste storie? Giulio cesare attraverserà il Rubicone e Caesar si accaparrerà le sue salsiccie?
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W. Trubner "Caesar at the Rubicon",1878, Belvedere, Vienna |
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W. Trubner "Caesar at the Rubicon", 1880, Alte Pinakotek, Staatliche Museen ,Berlin |
Come detto precedentemente, i quadri di Vienna e di Berlino erano il prequel del quadro che suscitò tanta simpatia che aveva come protagonista il cucciolone di Trubner: dipinto del 1877, della Germania di Otto von Bismark. L'insaccato non è quello delle opere successive, forse bratwurst, assomiglia di più a quelli che sono i veri Wiener Würstchen: e i morituri sono proprio loro, appesi al muso di Caesar che, con nobiltà e fierezza, accetta l'omaggio di coloro che stanno per essere ingoiati ( che, comunque, fosse suino o vitello, eran già morti). Qui il titolo non è azzeccato come l'altro e ha solo l' effetto umoristico, sia perchè chi era vivo è ben già mancato se è diventato un salsicciotto; e anche perchè la celebre frase ,che tutti diamo per scontato venisse proferita dai gladiatori, al loro presentarsi nell'arena di fronte ai Cesari, non è menzionata che da Svetonio in "De vitae Caesarum", quindi non ha assolutamente attestazioni storiche ma quest'unica attestazione letteraria. Svetonio la riporta nel V libro: l'invocazione sarebbe stata rivolta all'imperatore Claudio da condannati a morte che si preparavano a prendere parte ad una naumachia, non da gladiatori che si apprestavano a combattere... ma Cinecittà e pure Hollywood, con la sua fascinazione per "The History of the Decline and Fall of the Roman Empire" , 1776-1789, di Edward Gibbon, citato da Fonzie in "Happy days", ci ha tramandato l'immagine di omaccioni che si rivolgono all'imperatore con questa frase, in un saluto romano MAI esistito pure quello! Ma il quadri di Caesar coi salsicciotti ormai sono simpatici, negli anni sono diventati popolari, a tal punto che i Musei Statali di Berlino hanno usato quest' immagine per l' abbonamento annuale.
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W. Trubner "Ave, Caesar, morituri te salutant", 1877, Alte Pinakotek, Staatliche Museen, Berlin |
Dopo tre giorni torniamo da Demel: la cameriera ci riconosce, si avvicina al tavolo e tira fuori dalla tasca della sua uniforme scura la matita di Cornelius, che tornerà quindi a casa.